Dalla sequenza finale di ‘Blow-Up’ di Michelangelo Antonioni, con la compagnia di mimi che gioca senza palle né racchette, a quella del primo capitolo della saga dedicata al ragioniere, con la mitica partita fra Fantozzi e Filini sul campo fissato da quest’ultimo nella domenica più rigida dell’anno, l’universo del tennis ha più volte incrociato la strada del cinema. Con il linguaggio del dramma, della comicità o della commedia, a seconda delle occasioni. Forse perché ogni sfida di tennis, davanti agli occhi dell’appassionato che la scruta, ha quasi il fascino di una pellicola cinematografica. E per farci raccontare il suo film personale degli ultimi Us Open abbiamo contattato Ruggero Canevazzi, un ragazzo ferrarese, inviato a New York per conto del sito Ubitennis, a seguire il torneo sui campi di Flushing Meadows.

Partiamo dalla fine. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Una grande soddisfazione e molto entusiasmo. L’entusiasmo è l’elemento più naturale: sin dagli anni ’90 ho seguito con interesse il tennis, campioni come Sampras, Agassi, Ivanisevic (che ha vinto Wimbledon nel 2001 quando nemmeno lui se lo aspettava, alla fine della carriera, proprio come la nostra Flavia Pennetta in questo Us Open!) e Kafelnikov resteranno per sempre nei miei ricordi di adolescente. Da lì è partita la passione, che poi è, per caso, diventata un meraviglioso hobby nella collaborazione con Ubitennis, il sito di tennis per il quale collaboro via internet, che mi ha permesso di fare l’inviato sia qui a New York, sia a Montecarlo nel 2014. Questa trasferta mi ha dato anche grande soddisfazione, ti faccio due esempi: un’amica su Facebook che non sento da un po’, grazie al social network viene a sapere della cosa, mi contatta e mi fa i complimenti, chiedendomi se questo del giornalista è diventato il mio mestiere e se ho lasciato perdere l’Ingegneria. Le ho risposto: “Magari! Non è così, questo rimane un bellissimo hobby” e lei chiude così: “Allora bravo due volte a tenere vive sia la tua attività lavorativa sia quella di appassionato che non rinuncia a seguire e scrivere di tennis!”. Secondo esempio: sono sulle tribune del Louis Armstrong (di fatto il secondo campo per importanza dopo l’Arthur Ashe Stadium qui a New York), sto segnando i punti di un match di cui avrei dovuto, appena terminato, fare la cronaca. Uno steward si avvicina, incuriosito da quello che scrivo, chiedendomi cosa stia facendo. “Segno i punti per scriverne un articolo”. Mi guarda ammirato, mi fa i complimenti e mi stringe la mano, neanche avesse visto un attore famoso… fa sorridere, ma è comunque fonte di soddisfazione».

Da cosa è caratterizzato il microcosmo dei tennisti internazionali che hai conosciuto?
«Da persone per la maggior parte molto ben disposte a fare interviste, ma molto navigate, abili a evitare domande scomode e a fare dichiarazioni sempre generali e politicamente corrette. Ci vuole una certa esperienza per infrangere questa barriera ed entrare in confidenza con loro, esperienza che io sto cercando di acquisire, ma devo ancora raggiungere. Del resto i giocatori, specie quelli più famosi, sanno benissimo che qualunque frase sopra le righe può dare adito a forti critiche, con conseguenti mugugni da parte degli sponsor che finanziano almeno la metà dei loro introiti (se ci fate caso, un maestro del politicamente corretto, uno che non dice mai una parola fuori posto, è proprio il campione più amato, Roger Federer: sa benissimo che fare dichiarazioni forti lo metterebbe inevitabilmente in cattiva luce nei confronti di qualcuno, così preferisce stare sempre sul vago, sapendo bene che finché gioca a questi livelli di classe nessuno avrà nulla da dire nei suoi confronti)».

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Cosa ti ha colpito di una competizione come gli Us Open?
«La prima cosa che si nota, dopo aver assistito dal vivo ad altri eventi tennistici internazionali, è il modo tutto americano di vivere l’evento. Al primo match che ho visto, quello tra il nostro Simone Bolelli e il belga David Goffin, c’era una confusione incredibile: si giocava in un campo secondario e da una parte arrivava la musica a tutto volume diffusa per tutto l’impianto, dall’altra le grida dell’uomo dell’organizzazione che dava indicazioni agli spettatori che arrivavano. Questo per tutto il match: ho ammirato i due giocatori per come riuscissero comunque a concentrarsi, non so proprio come abbiano fatto. Per intenderci, il silenzio di Wimbledon è lontano più di un oceano. Devo dire però che ci si abitua presto e la cosa finisce per avere un suo fascino».

Durante il giorno eri occupato a seguire le partite, realizzare le interviste e scrivere i pezzi. Che immagine ti è rimasta di New York?
«Beh, posso dirti che immagine mi è rimasta del Billie Jean King National Tennis Center, l’impianto (del distretto del Queens) dove si è svolto lo US Open, perché dalle 10 della mattina a mezzanotte (a volte anche oltre), sono rimasto a seguire l’evento, che prevede appunto anche la sessione serale, per cui di Manhattan non praticamente visto nulla… se non qualche pub in cui mi rifugiavo per la birra che sanciva ogni notte la fine della giornata. Devo dire che di notte la zona centrale di Manhattan, Midtown per intenderci, non sembra molto viva, ma appena entri in un locale vedi molta gente, musica a tutto volume e schermi sintonizzati sulle partite di football o di baseball. Insomma, New York è New York, anche se limitarsi a qualche pub per descriverla è davvero riduttivo (ma da qui a lamentarmi ce ne passa, sia chiaro)».

Fra gli incontri che hai visto dal vivo, quale è stato il più avvincente?
«Il quarto di finale femminile tra Flavia Pennetta e Petra Kvitova: la numero 26 del mondo (la Pennetta) che perde il primo set dalla numero 5 (la Kvitova, una tennista della Repubblica Ceca) di un soffio, va sotto di un break nel secondo e quando sembra finita avvia una rimonta con colpi di grande qualità. Uno spettacolo».

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Chi fra i tennisti ti ha maggiormente colpito?
«Ovviamente in primis le due italiane finaliste, Flavia Pennetta e Roberta Vinci: basti pensare che non era mai successo che in un torneo del Grande Slam (oltre allo Us Open, i tornei del Grande Slam sono l’Australian Open, che si gioca a Melbourne, il Roland Garros, a Parigi, e Wimbledon, che è un quartiere di Londra) non si erano mai affrontati due giocatori italiani, né fra gli uomini né fra le donne, si tratta di un evento storico per il quale credo (ma spero di sbagliarmi) dovremo aspettare un’altra vita. Tra gli uomini il tennista che più mi ha sorpreso è lo spagnolo Feliciano Lopez (detto anche Deliciano dalle sua ammiratrici… ): ci ha fatto lo sgarbo di eliminare il nostro Fabio Fognini, ma contro Djokovic, ai quarti di finale, ha giocato alla grande, un tennis atipico, fatto di palle corte, discese a rete sia nei turni di servizio che in quelli di risposta, interruzioni del ritmo regolare dello scambio. Vedere quello stile di gioco estremamente offensivo è stata una gioia per gli occhi».

E la sorpresa che ha capovolto i tuoi pronostici?
«Scusa, ma sono costretto a ripetermi: mai e poi mai avrei pensato di vedere un’italiana giocarsi la finale. Ebbene, ne ho viste addirittura due! La Pennetta ha avuto il tabellone più difficile e alla fine ha meritato la vittoria finale, ma la Vinci ha compiuto un autentico miracolo: eliminare in semifinale Serena Williams, che oltre a essere la numero 1 del mondo aveva la motivazione extra di completare il Grande Slam. Robertina ha un gioco atipico, in qualche modo simile a quello che ho descritto per Feliciano Lopez: questo, sommato all’enorme pressione che gravava sulle spalle di Serena (aveva un’intera nazione, anzi l’intero universo tennistico, che non aspettava altro che la sua vittoria, per festeggiare un Grande Slam annunciato troppo presto. Anche la numero 1 del mondo è umana, ha risentito di questa pressione) ha permesso alla Vinci di approfittarne e lei è stata bravissima a farlo».

Quanto interesse verso il tennis hai riscontrato nel pubblico statunitense?
«Lo Us Open richiama tutti i giocatori più forti del mondo, lo spettacolo è assicurato. Il pubblico americano ha seguito con molta partecipazione tutte le partite che ho visto. Ho apprezzato moltissimo la sportività con la quale i tifosi americani, che sostenevano logicamente Serena Williams, abbiano applaudito dopo la semifinale Roberta Vinci, che di fatto ha rovinato loro la festa. Hanno apprezzato l’impegno e la passione della tarantina. Lo stesso pubblico non mi è piaciuto invece durante la finale maschile tra Novak Djokovic e Roger Federer. Io sono un tifoso di Roger, speravo vincesse, ma il pubblico era talmente desideroso della stessa cosa da esultare ad ogni errore di Djokovic. È un atteggiamento ben poco rispettoso, un conto è applaudire il tuo giocatore preferito, un altro è esultare per un incertezza dell’avversario. Il serbo è stato un signore in conferenza stampa a minimizzare la cosa».

Ci racconti come sono state vissute dalla stampa le due semifinali femminili?
«Io ho seguito dal vivo la prima semifinale, quella vinta dalla Pennetta sulla Halep (la rumena numero 2 del mondo): si è trattata di una vittoria più netta di quello che si poteva pronosticare, ma rimane nell’ordine delle cose. Quello che invece ha costituito un cataclisma è stata la sconfitta di Serena, numero 1 del mondo, contro Roberta Vinci, numero 43 della classifica. Ero in sala stampa a caricare sul sito gli audio delle interviste alla Pennetta e con un occhio seguivo il match della Vinci. A ogni errore della Williams si sentivano esclamazioni di sorpresa, mentre il nostro gruppetto di corrispondenti italiani delle varie testate aveva cominciato (con enorme professionalità… ) a tifare come allo stadio. Al punto della vittoria siamo saltati in piedi ebbri di gioia, ma la cosa più divertente era che i giornalisti stranieri, americani per primi ma anche tutti gli altri, venivano a farci i complimenti, come se fosse stato merito nostro… ».

Fra gli addetti lavori, c’è stato qualcuno che ha ipotizzato una finale femminile italiana?
«No, nella maniera più assoluta. Il direttore di Ubitennis Ubaldo Scanagatta, un giornalista che con questo Us Open ha seguito per varie testate 139 tornei del Grande Slam, nel suo editoriale scritto appena concluse le semifinali, ha esordito in questo modo:

NON CI CREDO. Una tennista italiana vincerà l’US Open. La finale è tutta italiana!!! Qualcuno mi svegli, non è possibile!!!

Ti assicuro che nemmeno il più ottimista e sfegatato tifoso avrebbe scommesso un centesimo su una finale anche con una sola italiana in campo. D’altra parte la Pennetta all’inizio del torneo era la numero 26 del mondo e la Vinci la numero 43: hanno compiuto un’impresa di fatto storica, non c’era mai stata nella storia del tennis una finale Slam tra due giocatori o giocatrici italiane».

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Quando è nata la tua passione per il tennis e cosa ti affascina di questo sport?
«Come ti dicevo è nata negli anni ’90, sia guardando i migliori del mondo sia appassionandomi alle vittorie dell’Italia nella Coppa Davis, l’unica competizione a squadre nello sport individuale per eccellenza. Andrea Guadenzi, Davide Sanguinetti e Diego Nargiso (e non solo loro), tra il 1996 e il 1998 hanno portato la squadra italiana due volte in semifinale e una in finale, consigliati dai capitani Adriano Panatta prima e Paolo Bertolucci poi. Il fascino del tennis si esprime al meglio quando nascono le grandi rivalità che fanno la storia di questo sport: McEnroe-Borg, Becker-Edberg, Sampras-Agassi, Federer-Nadal. L’ultima rivalità poi è affascinante per mille motivi: Federer ha vinto di più, ma Nadal è davanti negli scontri diretti (23 vittorie per lo spagnolo, 10 per lo svizzero), Federer ha più talento ma Nadal più forza mentale, Federer ha un tennis più completo ma Nadal quello perfetto per scardinare il gioco dello svizzero: gli spunti di discussione sono infiniti».

Ultima domanda. Il tennis è più difficile da praticare o da raccontare?
«Io l’ho sempre praticato tra amici e frequentando qualche corso, ma mai a livello agonistico. Posso dirti, per quanto limitata sia la mia esperienza come tennista, che è più difficile da praticare: su ogni punto devi dare il massimo sia in termini fisici sia soprattutto in termini mentali, la concentrazione deve essere massima, altrimenti il punto, 9 volte su 10, lo perdi. Raccontare il tennis invece mi viene più naturale perché si tratta di trasmettere un aspetto del gioco, un profilo di un tennista emergente, una riflessione su un tema più o meno discusso… insomma, si tratta di descrivere una cosa che ami: è impegnativo ma le motivazioni sono naturali, vengono da sé».

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