Prima di lasciarvi all’intervista ad Ewa Wójciak, attrice del gruppo polacco Teatr Osmego Dnia, ci tengo a dirvi due cose.

  1. Teatr Osmego Dnia, insieme ad altri gruppi storici del teatro contemporaneo, è stato a Ferrara la settimana scorsa per L’Eredità Vivente, dieci giorni di workshop, incontri e tavole rotonde, per festeggiare i 40 anni di attività del Teatro Nucleo.
  2. Dal 1952 al 1989, in Polonia venne raccolta un’imponente mole di materiale, creata allo scopo di sorvegliare e controllare il pensiero e l’attività di ogni persona non allineata al regime totalitario comandato da Wojciech Witold Jaruzelski.
  3. (sto già sgarrando, lo so). La scoperta di questi archivi avvenne solo nel 2007. Contatti, amicizie, confidenze e carteggi privati, da un lato, registrazioni, intercettazioni, recensioni, dall’altro. Tutto questo diventa la base per uno spettacolo, in cui il “Teatro dell’ottavo giorno” rilegge il proprio lavoro (e perché no, anche la propria giovinezza, rabbia, voglia di vita, dissenso, unione…).

“I dossier” è perciò uno spettacolo in cui i documenti seri diventano grotteschi e le corrispondenze private punti fermi di un labirinto. Entrambi ci aiutano a comprendere cosa è stato per dei giovani artisti vivere nel pieno di un totalitarismo.
Teatr Osmego Dnia fu fondato in una Polonia controllata dalla censura, dalla repressione e da una sorveglianza costante. Come è stato per voi vedere questi documenti dopo tanti anni?
Quando furono scoperti gli archivi della polizia segreta, c’era una grande battaglia in Polonia, a political battle su questi documenti. Così in Germania, così in Polonia, così ovunque, le persone che sono al potere ora, quelli che hanno le chiavi degli archivi now, vogliono avere il controllo assoluto su questo tipo di documentazioni, per usarlo come vogliono. Per questo all’inizio eravamo contrari ad usare questi files.

Perché?
C’è un lavoro sporco dietro a questi documenti, perché un po’ alla volta stanno tornando al potere le stesse persone di allora. Il rischio è che possano tornare ancora in possesso di questi documenti e usarli come meglio credono.

Avevo capito che i documenti, una volta caduto il regime, fossero stati devoluti ai diretti interessati. Invece mi sembra di capire che non sia stato così.
No, no. Avevamo già avuto parte di questi documenti da degli amici, prima di avere la possibilità di accedere e visionare tutti i fascicoli. Non è stato così semplice, come può essere accaduto invece in Germania. Anyway, i primi documenti che mi sono capitati sotto gli occhi mi sembravano molto grotteschi. Tra i vari verbali, c’era anche una sorta di analisi teatrale su un nostro spettacolo. Beh, c’è da dire che non ci sono molti artisti che vantano una recensione scritta da un colonnello! Tutto questo mi ha ispirata, così ne ho parlato con altri del gruppo e insieme abbiamo deciso di fare uno spettacolo che partisse da questi documenti. Siamo andati a chiedere di poter prendere visione dei nostri dossier e così sono arrivati I dossier.

Foto di Anja Rossi

Qual è l’obiettivo de “I dossier”?
L’obiettivo era mostrare tutte le facce di un totalitarismo, mettere in scena the real faces of totalitarism, il cui volto non era solo bianco o nero. La società era molto opportunistica, non c’erano eroi da nessuna parte, neanche nella resistenza. Anche verso la nostra realtà teatrale si era creata una sorta di mito. Sulla trentina di persone che eravamo – trenta su seicento mila abitanti che contava Poznan – sono state scritte montagne di documenti, ma eravamo solo degli studenti e degli artisti che facevano il loro lavoro. Quindi l’obiettivo dello spettacolo era anche demistificare un po’ tutto quello che nel tempo si era creato su di noi e sulla nostra storia.
Un’altra cosa che volevamo mostrare è stata quella di essere sopravvissuti come gruppo. Sopravvivere era possibile. È un messaggio anche per i ragazzi di oggi: non si devono sentire soli e senza aiuti, ma cercare i loro simili e fare gruppo.

Come la vivevate al tempo? Com’era per uno studente, per un artista, vivere il (in un) totalitarismo?
We were young, Eravamo (così) giovani. La cosa peggiore fu non poter vivere nella nostra città, nel nostro Paese. Non avevamo un passaporto, come era normale avere nella parte ovest del mondo. Era come una prigione.
Quello che abbiamo subito noi è stato un totalitarismo un po’ differente. Non è stato così tanto repressivo come lo è stato in Unione sovietica, in Cile o in Argentina, non è stato così tanto cruento. It was a grey totalitarism, con delle dinamiche più grigie, più nascoste. Eravamo giovani, vivevamo con la speranza che, con la fine del totalitarismo, il mondo potesse cambiare. In realtà non è stato così. Anche ora in Polonia stiamo sperimentando qualcosa di molto simile. Siamo liberi, ma sta tornando la stessa mentalità e lo stesso approccio politico di allora. Le autorità continuano a pensare che le persone debbano avere la stessa ideologia di chi è al potere ed essere d’accordo con quello che il potere dice.

Come ci si salva da tutto questo?
Non lo so, non ci sono ricette. Ma dobbiamo tenerli attentamente sotto controllo.

Alcuni componenti del gruppo, con l’introduzione delle leggi marziali, decise di scappare dalla Polonia. Per un periodo siete stati anche a Ferrara. Come è stato arrivare qui? Cosa ricordate di quel tempo?
Avevamo un biglietto di sola andata: se decidevamo di andar via non potevamo più tornare in Polonia. Io con la scelta di farmi timbrare il passaporto ho lasciato a loro tutto, anche il mio appartamento. A parte questo, ero tanto felice di essere qua a Ferrara. Quando fummo espulsi dal nostro Paese, Cora Herrendorf e Horacio Czertok del teatro Nucleo ci diedero una mano offrendoci la loro casa e il loro teatro per continuare a lavorare. Come noi, anche loro sapevano purtroppo cosa volesse dire lasciare tutto quello che si ha per la libertà. Fu al contempo anche molto difficile. Al tempo i cittadini polacchi non avevano diritti e prendere asilo allora non era affatto semplice. It was hard but anyway, it was a kind of step.

Proprio in omaggio al teatro Nucleo avete deciso di tradurre lo spettacolo nella nostra lingua. Quanto ci avete messo per impararlo in italiano?
Per ciascuno di noi è stato differente, in tutto ci avremo messo due-tre mesi. L’abbiamo desiderato molto perché voleva essere un regalo a Cora e Horacio, dopo tanto tempo.

Qual è la parola italiana che ti è rimasta più impressa, quella con il suono per te più buffo?
Oh, non so. Maybe “siocheze” or “conscienzia”.

Sciocchezze e coscienza. Due termini che ben racchiudono anche il senso de “I dossier”, dove un gruppo di attori rivede se stesso nell’età dell’innocenza, delle grandi bevute, delle letture proibite. Rivede se stesso e ne reinterpreta le azioni, i pensieri, le preoccupazioni. Ritrova negli spettacoli la storia del proprio Paese, le speranze, le fratture. Si ricorda infine che non c’è niente di più intollerabile al mondo, per il potere, che la libertà.

E questa non è una siocheza. Questa è la forza del teatro.

(grazie a Francesca Tamascelli per la traduzione)

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