Lunedì sera, luglio, piove. La città è deserta come fosse una sera di novembre, ma è luglio invece, è estate, è una contraddizione. Piove, o è appena piovuto, il selciato dei marciapiedi bagnato riflette le nostre incertezze. Silenzio ovunque, anche in Piazza Castello, illuminata quasi feralmente soltanto da un riflettore più adatto a un parcheggio di una zona industriale, che a un centro storico. Seduto su un divanetto asciutto di fronte a un hotel 4 stelle, c’è il batterista di un’importante band americana. Lo riconosco dalla posa, lunga e affusolata come le sue mani, lunghe, affusolate e benedette da un Signore indemoniato, tali sono, così armonici e irrequieti, i ritmi sincopati delle partiture della sua batteria. Si chiama Bryan Devendorf, viene da Cincinnati, dall’Ohio, uno stato americano secondo me molto simile alla Pianura Padana, anche se non ci sono mai stato e probabilmente mai ci finirò, in vita mia. Sta fumando una sigaretta, il fumo è appena percettibile, è appena arrivato a Ferrara, Ohio, dopo un viaggio di decine di ore lungo l’Europa. La sera precedente aveva dato lezioni di batteria a Ostrava, assieme all’altro fratello, Scott Devendorf, e altri due gemelli, Aaron e Bryce Dessner, che formano con il cantante Matt Berninger il gruppo americano The National. Il giorno dopo, martedì, suoneranno in Piazza Castello, per la seconda volta nella loro carriera: già nel 2011 infatti avevano scoperto Ferrara, l’Ohio padano, e gli era piaciuta così tanto che per la parte italiana del tour europeo l’hanno esplicitamente imposta ai loro manager. Ora però è lunedì sera, Ferrara è deserta come un Ohio inesistente, Bryan finisce la sigaretta, si alza in piedi, percorre qualche metro per mettersi sotto la luce di quel riflettore bianco da centro commerciale, che rischiara algidamente una porzione di Piazza Castello, estrae il cellulare e si scatta una foto da solo.

Poco distante, in un altro hotel a 4 stelle di Piazza Castello, voci inglesi disturbano la quiete notturna. Detta così sembrerebbe essere una piazza di hotel e basta, ma sarebbe un’impressione errata: qualche giorno fa si è addirittura insediata una nuova panetteria, che risulterà poi decisiva nel corso di questa storia. Ora però è ancora lunedì sera, e Ferrara diventa l’Ohio e le sue notti stellate, fatte apposta per sedersi e ridere e smaltire tutta la strada percorsa. Le risate sono quelle della “crew”, lo staff dei The National, tutti uomini più una donna, che ci salutano e ci raccontano del lungo viaggio dalla Repubblica Ceca, in pullman, della sveglia di domani alle 7, per montare un palco attualmente ancora completamente vuoto. Anche loro ci e si chiedono perché Ferrara sia così deserta: sarebbe pure estate, in fin dei conti. Gli spieghiamo che a luglio la città si svuota, alcuni vanno al mare, e poi piove, e quando piove a Ferrara non esce mai nessuno. Troppa paura di bagnarsi, i locali chiudono, troppa paura di finire a specchiarsi sui marciapiedi lucidi, anche, forse, mi viene da pensare. «Tutti al mare? Ci saranno mica le ragazze nude?» azzarda goliardico uno di loro, scambiando i Lidi Comacchiesi per la California, forse, anche se non so se in California le ragazze al mare girino vestite, non ci sono mai stato in California in vita mia e forse mai ci finirò. Prima di darci la buonanotte, i ragazzi della crew dei The National ci chiedono di portare loro tre cose, in vista della loro giornata di lavoro che li attende. Nell’ordine: «wine, gelato – lo dicono proprio così, in italiano – e naked girls». Ci attrezzeremo, rispondiamo, e ce ne andiamo tutti a dormire.

Il giorno dopo, martedì, Ferrara torna in Pianura Padana, il palco di Ferrara Sotto le Stelle inizia a prendere forma, invaso da formiche con il casco fosforescente che trasportano materiale acustico, casse, impianti luminosi, ancora casse, fili, luci, cavi. Non riesco a disturbarli, lavorano dalle 7 della mattina, decido di piantonare l’albergo a 4 stelle, e mi imbatto nei gemelli Dessner, in tenuta da jogging: maglietta, pantaloncini corti, scarpe a tennis, fiatone. Conversano come due ferraresi che si incrociano sulle Mura durante la corsetta delle sei del pomeriggio, e li trovo così ovvi e scontati, nella loro ferraresità acquisita nel giro di una mattina, sebbene vengano da Cincinnati, Ohio, che non riesco a disturbarli, a chiedere loro qualcosa, un’impressione, perché sono tornati a suonare qui, come passeranno il resto della giornata. Perché qui a Ferrara usa anche così: non importunare gli altri, rimanere riservati, farsi gli affari propri. Stai a vedere che la nostra città gli è piaciuta anche per questa riservatezza?

Foto di Luca Gavagna

Arriva la sera, di nuovo minaccia pioggia, la tregua tra il cielo e i nostri conti da saldare con Ferrara Sotto le Stelle tiene a debita distanza le nuvole. Piazza Castello si riempie, lentamente, con quel suo modo di fare sornione scalfito soltanto dagli intrepidi delle prime file, già in coda dal tardo pomeriggio. Il resto dei ciottoli vengono occupati con pudore ferrarese, sebbene la maggior parte delle persone non sia di qui, almeno così mi sembra sempre, ad ogni concerto di Ferrara Sotto le Stelle. Sono appoggiato alla balaustra della prima fila, leggermente defilato, nei pressi dell’ingresso dell’albergo a 4 stelle dove alloggia la band, e riesco a scorgere l’uscita del cantante, Matt Berninger, nel suo completo completamente scuro, occhiali neri, barba e capelli (pochi) biondo rossiccio, che procede placido verso il palco. Praticamente nessuno del pubblico se ne accorge, rapito ottusamente da un palco ancora vuoto, io alzo la mano, lui risponde sollevando il braccio e regalandomi un sorriso. E’ ancora lucido, Matt, lui che è abituato a scolarsi una bottiglia intera di vino ad ogni concerto, e arrivare, in taluni casi, a biascicare le strofe dei pezzi finali. Manca ancora qualche minuto, poi inizieranno a suonare, insomma, l’estate inizierà, ancora una volta.

Perché è di questo, poi, che stiamo parlando: di estate. Ferrara che per una notte, in luglio, viene teletrasportata in Ohio, o in tutti i paesi del mondo dei gruppi che vengono a suonare davanti al Castello. Ferrara per una notte smette di essere una città e diventa il bancone di un bar, dove ci si siede a ordinare una birra, a fine giornata, senza che il barista apra bocca, perché lo sa, che non hai voglia di rispondere a una sola domanda sulla tua giornata, hai soltanto voglia di mandare giù un sorso ghiacciato di una bionda media. Piazza Castello, per una notte, e soltanto d’estate, smette di essere la piazza degli alberghi a 4 stelle e diventa un cortile, un angolo di una spiaggia, i campi di grano dell’Ohio padano dove rincorrersi a piedi nudi, senza chiedersi perché. Non è il primo concerto dei The National che vedo, li ho visti a Roma, a Berlino, ma soltanto qui, a Ferrara, ho visto i gemelli Dessner alzare gli occhi al cielo, mentre sbattono le chitarre verticali sul palco, e soltanto qui, a Ferrara, ho visto Matt Berninger terminare Mr. November entrando sul balcone dell’albergo a 4 stelle, trasformandolo nel balcone di casa sua, di casa nostra (accadde nel 2011), soltanto qui in questa città dimenticata degli Stati Uniti d’Italia ho toccato Matt mentre procedeva semi ubriaco verso la nuova panetteria, cantando a denti stretti le strofe finali di Terrible Love tra pizzette e coppie di pane ferrarese e sfilatini. Soltanto qui, a Ferrara Sotto le Stelle, patrono ufficiale delle nostre estati, ho visto il filo del microfono tendersi mentre il cantante fendeva la folla, e tendersi ancora, fino a staccarsi, fino a zittire la voce e lasciare spazio soltanto alle nostre ugole sguaiate.

Abbiamo tutti un po’ bisogno di tornare dentro quella piazza, ci serve a tutti, una volta all’anno, fare all’amore con l’estate, la stagione più bugiarda e più impossibile di tutte e quattro. Serve ai The National, e serve a noi spettatori paganti, e serve, io credo, anche agli organizzatori stessi, tra chi poco prima dell’inizio del concerto si sporge sulla prima fila per salutare un caro amico, e parlottare e dimenticando per un attimo, io credo, tutto lo stress accumulato (perché fare un’estate, ogni anno, non è mica facile). O tra chi, quasi non resistendo, si affaccia a bordo del palco a gustarsi una sola canzone, frontalmente, divorando una sigaretta, per poi tornare immediatamente dietro le quinte. Le band americane tornano qui perché qui hanno imparato cosa sia la bellezza discreta, di un castello medievale semicoperto dalle impalcature per stuccarne le rughe, di una corsa mattutina indisturbata, di ragazze che infilano le mani dentro la barba ai cantanti. Noi spettatori, e noi ferraresi (che lo siamo per una notte o per la vita, poco cambia, d’estate) abbiamo bisogno di tornare a rivedere band già viste, su un palcoscenico di cui conosciamo ormai a memoria persino i bulloni che lo tengono insieme, perché senza estate, senza una tregua con la propria città, senza uno stordimento emotivo a portata di mano non riusciamo a stare. Abbiamo bisogno di farlo dentro una piazza di una città, in casa nostra, e non dentro degli ippodromi divorati da zanzare o dentro auditorium dove tutto sembra sì magico ma artificioso. Una piazza dove siglare una tregua con se stessi, in un luogo che torna a impossessarsi della sua natura primordiale: specchio di noi stessi, anche quando non piove e i marciapiedi non sono lucidi e non sono deserti. Abbiamo bisogno dell’estate insomma, grazie a Ferrara Sotto le Stelle e grazie ai The National, e alla loro musica che rimette a posto le cose tranne che noi stessi, che ci lascia così, irrisolti, ma tutto sommato ancora in piedi. Sufficiente per salvarci la vita, fino alla prossima estate.

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