“Io nei ricordi affondo, rido di gusto, provo tenerezze inusitate”[1]

Non ho mai avuto l’onore di conoscere personalmente don Franco Patruno (1938-2007), figura rara di artista sacro e di sacerdote consacrato all’arte. Ho avuto, però, il privilegio di incontrarlo negli occhi e nella voce di dieci persone, con il loro carico di affetto, rispetto, gioia, con quel sollievo, quella scintilla, come in un abbraccio invisibile.

Innanzitutto, i racconti autobiografici di don Patruno mi hanno obbligato a percorrere quelle strade nel centro della Ferrara anni ’40 e ’50, intrise di volti, ciottoli, odori, tra Corso Porta Reno e Via San Romano, con gli occhi sempre puntati alla svettante Cattedrale poco lontana. In mezzo, puttane e bottegai, artigiani e rigattieri, pullulanti commerci dentro e fuori le strade strette e spalancate delle viscere cittadine.

Qui nasce il genio folle e sagace di don Franco Patruno, fatto di mani immerse nel ventre della vita, a contatto con la povertà, le miserie delle esistenze. Mani che un giorno benediranno e dipingeranno, gesti nervosi gli ultimi ma proficui, liturgici e vertiginosi i primi.

Fronte alta, don Franco, e un orecchio, quello sinistro, sordo. Era un amante mai sazio di visioni di vita, nelle sale buie e fumanti dei cinema, o fuori sul selciato, tra i balli provocanti e gli scrosci di risate nel ristorante del padre in Via Vaspergolo, quella via crogiolo della sua vita, “gioioso budello di sassi, sudaticcio di santa umidità, allegro nel suo allargarsi verso Porta Reno […]”[2].

E poi quel corpo a corpo continuo con la vita, le persone, fino all’ultimo. Quella “Santa voglia di vivere” nei suoi occhi vivaci e divertenti, meandri di una cultura impregnata dell’uomo di carne e anima, degli impasti complessi del vivere.

Don Franco si perdeva nei mille miscugli delle vite, negli intingo divorati, lui goloso, tra un Pater e un Botticelli, nella polvere di Boccacanale di Santo Stefano davanti Casa Cini, coi suoi giovani allievi, nella dolcezza di chi, tramite il Bello, cerca sempre Dio.

Per gentile concessione di Massimo Marchetti.

Per gentile concessione di Massimo Marchetti.

Massimo Marchetti (curatore e critico d’arte)

Don Franco era un sacerdote di idee aperte, curioso intellettualmente, dialogante, e la sua era una spiritualità molto concreta. Inoltre, era cercato sempre da tutti, ed era incapace di dire ‘no’. Nonostante la salute precaria, era sempre sorridente e pieno di entusiasmo.

Aveva poi una passione per le barzellette: qualcuno una volta lo definì “un barzellettiere accanito”, perché le raccontava anche se non facevano ridere… Ricordo poi la sua dieta forzata per via dei problemi di salute. Per questo si consolava chiedendomi sempre cos’avessi mangiato per pranzo, nei dettagli!

L’ultimo suo compleanno, nel novembre del 2006, ricordo che ballò il boogie-woogie con sua sorella: nonostante fosse appesantito dall’età e dalla malattia, aveva ancora addosso un’incredibile gioia di vivere.

Franco Farina e Franco Patruno al Buskers Festival 1989. Per gentile concessione di Paolo Volta.

Franco Farina e Franco Patruno al Buskers Festival 1989.
Foto di Andrea Samaritani.

Francesco Lavezzi (Ufficio Stampa Provincia di Ferrara)

Fui bibliotecario di Casa Cini dall’ ’85 al ‘96. Lui la considerava come spazio di incontro fra culture, personalità e idee diverse, una porta aperta nei confronti della città, non solo della Chiesa. Anche dell’arte non aveva una concezione strettamente cristiana, ma prediligeva l’uomo in quanto tale, come apertura al trascendente.

Personalmente non aveva mai un atteggiamento serioso, distaccato, elitario, ma era alla mano, autoironico e autodissacrante.

Una volta lo accompagnai a Roma per alcune mostre d’arte: sul treno non trovavamo i nostri posti prenotati. Solo dopo Bologna ci accorgemmo di aver sbagliato il biglietto, guardando quello del ritorno… ci aiutò un turista inglese! Ridemmo come matti!

 

Don Daniele Balboni (diacono permanente)

Don Franco è riuscito a farci vedere, a noi diaconi, il volto del Padre, e in un modo in cui nessuno ce l’ha mai mostrato. È stato un punto di riferimento e un amico.

Ho, però, il rimpianto di non aver trovato, dopo la sua morte, nessuno che ci abbia seguito come colui, come un fratello maggiore. Lui aveva davvero qualcosa di unico, di diverso da tutti.

Da sinistra Massimo Marchetti, Franco Patruno e Franco Farina. Per gentile concessione di Paola Bonora.

Da sinistra Massimo Marchetti, Franco Patruno e Franco Farina.
Per gentile concessione di Paola Bonora.

Piero Stefani (teologo e docente)

La generazione di don Franco è stata quella che ha sperimentato in modo più diretto l’influsso del Concilio Vaticano II. Nel discorso rivolto nel ‘64 agli artisti, Paolo VI parlò di un’alleanza da rinnovare tra Chiesa e artisti; essa, in realtà, non fu mai completamente rotta, tuttavia non poche sono state le incomprensioni. Don Franco è stato protagonista attivo di questa rinnovata alleanza, percorrendo vie originali.

La sua linea guida è dicibile in due maniera opposte e complementari: calare la dimensione della fede nei volti umani, e far scaturire non forzosamente da ogni incontro umano una dimensione di fede.

 

Paolo Volta (gallerista e curatore)

La parrocchia di don Franco non era limitata in uno spazio, ma era una parrocchia diffusa. Egli possedeva il carisma di riuscire a conoscere le persone a fondo: ognuno con lui si sentiva accolto come persona, per quello che era. A me e Lucia [Boni, moglie di Paolo, ndr] una volta dedicò un disegno, e sotto scrisse una dedica, per noi molto importante: “Germina anche a gennaio”.

 

Lucia Boni (poetessa ed educatrice)

Don Franco era una persona affabilissima, aveva sempre un pensiero per me, per ognuno. Una volta mi chiamò che ero a scuola solo perché aveva ascoltato una canzone col nome Lucia, e quindi, contento, voleva dirmi che gli ero venuta in mente…

Per gentile concessione di Massimo Marchetti

Per gentile concessione di Massimo Marchetti

Marcello Musacchi (Direttore Ufficio Catechistico Diocesi di Ferrara-Comacchio)

Quand’era seminarista, al passo della Mendola attendeva insieme ad altri il Vescovo Natale Mosconi. Si trattava di inscenare il tipico “grido di guerra”: la truppa risponde “IN PARETE” al “RAGNI” intonato dal capogruppo. All’arrivo del Vescovo, Franco proruppe col suo “RAGNI”, ma nessuno dei compagni gli andò dietro, producendo un imbarazzante silenzio. Mons. Natale Mosconi lo guardò in un modo che avrebbe incenerito chiunque altro, ma non don Franco. Lui si girò verso gli altri seminaristi e sussurrò un inequivocabile: “stronzi”.

Don Franco usava l’ironia per accorciare la distanza fra ciò che pensiamo di essere e ciò che siamo. Era il suo un umorismo pieno di pedagogia e di carità. Era un esteta e proprio per questo si era lasciato catturare dalla bellezza di Cristo. Non si è mai sentito un “arrivato”, ma al contrario amava la Chiesa proprio perché in essa incontrava una realtà capace di completare le sue intuizioni folgoranti. 

Angelo Andreotti (Direttore Musei Civici di Arte Antica di Ferrara)

Don Franco era una persona vorace di ogni forma di conoscenza purché fosse strumento di comprensione dell’alterità. Le etichette non gli si sono mai appiccicate bene. In lui si è incarnata e vivificata la posizione culturale di Jacques Maritain e Romano Guardini, filosofi dai quali ha assunto l’approccio alla vita.

Per questo poteva anche non piacere. Il rigore lo metteva nella sostanza, mai nei formalismi, nel rapportarsi direttamente con le persone, non attraverso le loro appartenenze, che lo inquietavano, e dalle quali se ne ritraeva o le ostacolava con ironia. Ciò che lo infastidiva era quell’esclusione che molto spesso il senso dell’appartenenza porta con sé. La profonda e indiscutibile religiosità, e la non modaiola laicità, gli hanno fatto da lente di ingrandimento per guardare il mondo, costantemente stupito per le cose belle e autenticamente partecipe delle pene altrui.

Franco Patruno con Folco Quilici. Per gentile concessione di Massimo Marchetti.

Franco Patruno con Folco Quilici.
Per gentile concessione di Massimo Marchetti.

Gianni Cerioli (curatore e critico d’arte)

Ci siamo incontrati come pazienti in una famosa clinica di Bologna. Il trovarci in quella situazione ha fatto scattare una complicità senza pari. Se c’è stato un amico vero quello è stato lui.

Era come se nella imprevedibilità della situazione che lo toccava tanto da vicino il suo spirito creativo, amicale, caritativo, sacerdotale venisse rafforzato. Le battute servivano a sdrammatizzare la povertà della carne, a riportare alla dovuta misura le diverse situazioni.

La cosa che non riesco a dimenticare è il suo sguardo quando mi faceva leggere ad alta voce un testo che aveva appena scritto. Tutti i “don Franco” che conoscevo erano in quel suo sguardo che cambiava di volta in volta e tornava a poco a poco da un viaggio al cui centro stava una profondità ammirevole.

La Biennale di Arte [visitabile fino al 30 settembre a Casa Ariosto, ndr] è dedicata a lui proprio perché si è voluto riconoscere l’importanza della sua figura intellettuale, culturale, umana per la formazione di tanti giovani artisti, nella piena libertà di espressione.

 

Isabella Guidi (pittrice ed educatrice)

L’ultima volta che sono andata a trovarlo a Casa Cini, insieme a Gianni Vallieri, era un mese prima della sua morte. Gli abbiamo fatto la proposta di un lavoro di pittura a quattro mani. Don Franco aveva preso subito la cosa sul serio e con il consueto entusiasmo creativo ci salutò con la promessa di riparlarne.

Prima di salutarci, si avvicina al tavolo, prende alcuni fogli grandi di carta, il pastello Canson grosso e fa una battuta. Poi abbassa gli occhi sul foglio. Si concentra. Apre il braccio e la mano comincia a volare. Non ritorna mai sui suoi passi, sa dove deve andare e ci va.

Finisce, si ferma qualche secondo, il volto di Cristo è un volto al limite della resistenza umana, un ultimo volto. Riprende a disegnare e aggiunge ancora un segno, tre parole come titolo o commento: “…nelle tue mani…”.

Appoggia il pastello, si pulisce le mani, mi allunga il foglio e mi abbraccia: “E’ per te”. Esco da Casa Cini. Quelle parole so cosa significano: “Nelle tue mani affido il mio spirito!”

Io e Vallieri usciamo senza parlare. Ad ognuno il suo pensiero.

Il mio mi angoscia. Non lo rivedrò più.

[1] Franco Patruno, Davanti a Via Vaspergolo…, in I racconti di Pantaleo (L’inventore del pigiama a bretelle). Ricordi ferraresi, Book Editore, Castel Maggiore (BO), 1993.

[2] Franco Patruno, Lo sventramento di San Romano, idem.

1 Commento

  1. roberto scrive:

    Non l’ ho conosciuto personalmente, ma ho comperato, attraverso amici, molto tempo fa, alcuni suoi acquarelli. Li conservo tuttora, appesi alle pareti di casa: sono rimasti integri, freschi, attualissimi.

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