Lo sciame dei passanti percorre simmetrico il pavimento di piazza Municipale. Il buio precoce che si trascina il ritorno dell’ora solare è un sipario che cala spedito sul pomeriggio di un mercoledì. Seduti al tavolino di un bar incontriamo qualcuno che, dietro un sipario, ci lavora da anni. Dopo il riconoscimento dalla presidenza della Rebubblica, per lui arriva il premio della Critica teatrale 2013, che ritira a Lecce lo scorso 1 novembre. Michalis Traitsis raccoglie i frutti del suo impegno in campo sociale. Oltre ai laboratori teatrali con studenti e lavoratori a Ferrara, infatti, il regista, pedagogo e fondatore dell’associazione ‘Balamòs teatro’, dal 2006 è presente negli istituti penitenziari di Venezia con il progetto ‘Passi sospesi’. In un primo tempo nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, quattro anni dopo nella casa di reclusione femminile della Giudecca. E di carceri, cultura e numerosi altri argomenti, discutiamo proprio con lui.

Quanto è importante il laboratorio teatrale in una realtà come il carcere?

Portare il teatro in una struttura penitenziaria è estremamente importante in quanto offre la possibilità di ‘sospendere’ lo spazio e il tempo di quel luogo, di stravolgere quella dimensione.

Da cosa è caratterizzata quella dimensione?

Dal fatto che in carcere non succede mai niente. Il paradosso è che ogni volta che si vuole fare qualcosa il tempo agisce come un nemico.

Come ci si pone i nei confronti dei detenuti che affrontano questa esperienza?

Spesso l’ambiente carcerario alimenta nei detenuti una tendenza verso la negatività. Con l’attività dei laboratori si cerca appunto di rompere quella dinamica relazionale che molte volte contrappone le persone per questioni futili.

C’è qualcosa che ti ha sorpreso?

Avrei diversi esempi da raccontare. Penso a Luminita, una ragazza che ha seguito un laboratorio teatrale legato a ‘Le Troiane’. Quando rientrava in cella, con le matite si dedicava a disegnare il percorso, un po’ reale un po’ immaginario, verso lo spettacolo. Ne è venuto fuori un fumetto di centotrentotto tavole che siamo riusciti a stampare in un numero limitato di copie. Mi viene in mente anche Nawal, una ragazza dotata di un indiscusso talento canoro, che con la sua voce ha riprodotto la colonna sonora dello spettacolo.

Foto di Andrea Casari

Una volta ultimato il laboratorio, quanta consapevolezza c’è di aver lavorato bene?

Subito dopo la prima replica de ‘Le Troiane’, lo scarico di adrenalina era enorme. Una ragazza che ne ha preso parte mi ha confidato che era la prima volta che aveva ricevuto un complimento. Il punto è che bisogna lavorare su questa consapevolezza nel lungo periodo. Basta poco a distruggere tutto quello che si è costruito, così come basta poco a ricompattarlo.

Che tipo di giovamento possono avere i carcerati, una volta terminata la reclusione?

Alcuni testimonianze dimostrano che percorsi di questo tipo portino a un tasso ridotto di recidiva. Al Coordinamento nazionale teatro in carcere (di cui l’associazione ‘Balamòs Teatro’ è tra i fondatori ndr) chiederemo di fare uno studio proprio per ottenere dati scientifici su questo tema.

Magari un avvicinamento al mondo del teatro?

Una volta un detenuto mi disse: «Quando esco da qui, andrò a vedere più teatro nella mia vita!». Il suo primo giorno di libertà è venuto ad assistere a una nostra rappresentazione al Ctu.

Dal tuo punto di vista, ci sono condizioni non compatibili con il regime carcerario?

La mia opinione è che la clandestinità non dovrebbe essere considerata un reato. Così come sono convinto che i tossicodipendenti abbiano bisogno di una struttura apposita. Il carcere non fa altro che contribuire a un peggioramento della loro condizione.

Perché il tuo progetto nelle carceri si chiama ‘Passi sospesi’?

Il teatrante vive come un funambolo, permanentemente in una situazione scenica di rischio. Parallelamente anche il detenuto, che nella maggior parte dei casi non rimane in carcere per sempre, si trova in una simile situazione di sospensione.

C’è anche un riferimento cinematografico?

Il richiamo è a ‘Il passo sospeso della cicogna’, un film del 1991 diretto dal regista greco Theodoros Angelopoulos. A un certo punto della pellicola, il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni si trova davanti a una linea di confine. Alzare il piede significa oltrepassarla. Il senso è che con un passo può cambiare tutto.

A proposito di passi in avanti, il rapporto fra associazioni e istituti penitenziari è arrivato a un riconoscimento formale?

Nel mese di settembre, il Coordinamento nazionale teatro in carcere ha firmato il protocollo d’intesa con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e con l’Istituto di studi penitenziari.

Chi sono i collaboratori dei quali ti avvali per il progetto ‘Passi sospesi’?

C’è Marco Valentini che si occupa della documentazione video, Andrea Casari di quella fotografica, Patrizia Ninu che cura l’assistenza drammaturgica e Giuseppe Lipani che, da studioso del teatro, segue gli sviluppi del progetto.

Periodicamente registi di fama nazionale e internazionale come Fatih Akin, Mira Nair e, di recente, Antonio Albanese, hanno partecipato a incontri con i detenuti.  Quale è l’approccio di questi ultimi agli appuntamenti con loro?

Intanto c’è una fase di preparazione in modo che possano apprezzare lo strumento che viene offerto loro. Prima dell’incontro assistono ad alcuni dei loro film. Poi, man mano che il momento si avvicina cresce anche l’attesa e la curiosità.

E gli ospiti come si rapportano con loro?

Chi viene da fuori porta il suo mondo, ma deve adattarsi al mondo che trova dentro. Con Albanese si è creato da subito un bel clima e abbiamo dato vita a un vero e proprio laboratorio.

A Ferrara non mancano occasioni d’incontro sul tema del teatro in carcere.

Nell’ambito del Festival ‘Internazionale’, lo scorso 5 ottobre, il Ctu ha ospitato un dibattito con esperti sull’argomento. Il video è disponibile sul sito internet www.balamosteatro.org 

Un’ultima riflessione?  

Credo che la cultura abbia la capacità di renderci migliori. Pertanto ritengo che ogni opera debba poter essere apprezzata da tutti. Non solo da un pubblico intellettuale, ma soprattutto da chi non ha mai potuto usufruire di questo prezioso strumento.

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