Un distillato di sentimento, sintetizzato a partire dalle composizioni drammatiche del pittore seicentesco Carlo Bononi, concentrato in otto fotografie virate sul cipria, semplici e potenti, che raccontano una storia d’amore intitolata “Cuore liquefatto”.  Questo è il titolo della nuova personale italiana di Anna De Prospero, allestita negli spazi della Mlb Maria Livia Brunelli Home Gallery per accompagnare la mostra che Palazzo Diamanti ha dedicato all’artista seicentesco, definito significativamente come “l’ultimo sognatore dell’Officina Ferrarese”. Anna è nata nel 1987, ha trent’anni esatti, lunghi capelli castani e modi pacati e composti. Non alza la voce, parla con calma, scandisce le parole e si assicura con lo sguardo che il suo interlocutore capisca esattamente cosa sta dicendo. Evidentemente riflessiva, non permette ai sentimenti di metterle fretta, sulla bocca resta un sorriso tranquillo. Mi ricorda un alambicco, una macchina fragile e delicata, precisa e meticolosa, che trangugia materia prima – vita e relazioni, impressioni, luoghi ed emozioni – e pazientemente sublima ed estrae materia nuova, essenziale ed enigmatica per la quantità di elementi che compressa e condensa.

L’ho incontrata prima dell’inaugurazione, durante l’allestimento delle opere. Abbiamo chiacchierato del suo percorso, dei suoi primi esperimenti dietro alla macchina fotografica e dei pensieri che l’hanno guidata nella creazione dei suoi progetti più impegnativi, dagli scatti che l’hanno resa famosa ai work in progress. Il pezzo clou del suo portfolio è l’autoritratto in compagnia della madre, vincitore nel 2011 del premio Discovery of the Year, scelto l’anno scorso per la copertina del catalogo della collettiva L’altro sguardo, allestita alla Triennale di Milano per promuovere i nomi più interessanti della fotografia femminile italiana. Sfogliando il suo book e ascoltando il suo racconto proseguire di pagina in pagina capisco quanto fermare e ricreare la realtà attraverso l’obiettivo sia funzionale alla sua relazione col mondo e con gli altri: la fotografia diventa un vero e proprio filtro, un medium per non sbattere la faccia sulle cose, per potercisi avvicinarsi piano.

Foto di Giacomo Brini

«Queste foto, come quasi tutti i miei lavori, sono state realizzate a casa dei miei genitori, a Latina. È il mio studio a cielo aperto anche se non ci abito più da tempo. Mi sono trasferita lì assieme alla mia famiglia quando avevo quindici anni e una delle prime serie a cui mi sono dedicata, Selfportrait at Home, è stata ispirata proprio da quella abitazione. Inizialmente faticavo a sentirla mio e la fotografia mi ha aiutata a entrarci in contatto. La scoperta della casa ha coinciso con la scoperta di questa passione. L’autoritratto è diventato un rito, dopo la casa ho utilizzato questo strumento per capire di più la città stessa: era l’agosto del 2009, esploravo le piazze e le strade di Latina all’alba, quando tutto era silenzioso e deserto. Non cercavo un risultato estetico, è stata una bella esperienza soprattutto da un punto di vista personale. Lo stesso è successo quando sono andata a vivere a Marsiglia e a New York. Ero distante dai miei parenti e dai miei amici, è stato naturale ricominciare a fare la stessa cosa, lo faccio in ogni casa nuova: realizzo un autoritratto diverso per ogni stanza».

La relazione con lo spazio è al centro della ricerca intitolata I’m Here, che raccoglie anche le opere dedicate all’architettura contemporanea; il secondo focus su cui Anna si concentra è la relazione con le persone, condotta attraverso la ricerca With You, che comprende gli autoritratti realizzati con i familiari, con gli amici e con gli sconosciuti. Entrambe si muovono come cerchi concentrici, cominciano da ciò che è più vicino e si allargano a comprendere dimensioni sempre più distanti ed estranee.  “Cuore Liquefatto” si inserisce in questo macrocosmo ordinato di senso come una piccola anomalia, svolta con estrema coerenza.

«Ho avuto un anno di tempo per realizzare ex novo questa mostra, ed era la prima volta che mi si chiedeva di lavorare lasciandomi ispirare da un artista. Inizialmente pensavo fosse uno svantaggio invece ho dovuto ricredermi, è stato un punto di forza. E sono stata contenta di potermi dedicare a un pittore come Bononi, dimenticato dalla storia dell’arte per tantissimo tempo, perché questo mi ha aiutato a personalizzare il mio studio, senza essere influenzata da altre fonti». La serie isola alcuni elementi iconici rappresentati nei dipinti e li reinterpreta in un’atmosfera rarefatta e solenne, seppure svincolata completamente dal sacro. Apre la narrazione il dito puntato dell’Angelo custode, che nella pala d’altare indicava la retta via al ragazzo ghermito dal diavolo e qui diventa imperativo assoluto, autoritario e inesplicabile: la mano, sola, si staglia nel cielo. Si prosegue tra uccelli in volo solitario, circondati dalle nubi, fuochi d’artificio e case da bambola sciolte tra le fiamme, occhi chiusi che piangono sommessamente lacrime di sangue.

Courtesy Anna di Prospero

«Non volevo realizzare immagini che avessero uno stile pittorico, non volevo un rifacimento manieristico. Soprattutto non volevo tradire il mio stile. Ho lavorato per sottrazione, facendomi guidare da due elementi chiave: luce e sentimento. Ho eliminato ogni distrazione, per lasciare emergere la forza e l’emozione. Il punto di vista che ho scelto è dal basso verso l’alto, per enfatizzare la drammaticità. Anche l’allestimento delle opere, posizionate leggermente più in alto del normale, serve per esaltare questo aspetto».

I soggetti, ieratici e talvolta violenti, emergono da nuvole e sfondi rosa pallido, onirici e infantili, sembrano i ricordi o i sogni di una bambina. La stessa tonalità di base si ritrova nella serie Reverie, esposta parzialmente a settembre al Maad di Adria, per la collettiva “Indagine sull’imperfetto”.

«Ho lavorato tre anni per concludere Reverie, contemporaneamente mi sono dedicata allo studio di Bononi, è inevitabile che le due serie si siano intrecciate da un punto di vista stilistico, anche perché mi sono resa conto di procedere spesso per andamenti cromatici. Ho iniziato con toni molto caldi, poi sono passata a un carattere più saturo e freddo, questo si può considerare il mio periodo pastello. Ho sempre investito molto nella lavorazione del colore, non riesco a ragionare su immagini fredde, come non riesco a ragionare su immagini in bianco e nero, o verticali. Per realizzare questa particolare sfumatura lavoro molto nella post produzione, ma è un processo che funziona se l’hai studiato a monete, se l’hai progettato prima dello scatto. Nei miei primi lavori la postproduzione era più consistente, usavo la multi-esposizione per creare piani sovrapposti. Col tempo ho deciso di escludere questo tipo di interventi e concentrarmi unicamente sulla color correction, che intendo come un prolungamento del processo creativo, mai come un limite. In Italia i pregiudizi sulla postproduzione stanno iniziando finalmente ad essere superati dalla pratica. Io credo che questo possa gettare le basi per la nascita di un nuovo genere fotografico. Il digitale non è l’analogico, non ha le stesse qualità e nemmeno le stesse caratteristiche. Io credo che ognuna debba utilizzare i mezzi a disposizione come meglio crede, non sottraggono e nemmeno aggiungono nulla. L’unico obiettivo, l’unica cosa veramente importante, è trovare il proprio stile anche nella postproduzione. Viviamo bombardati da immagini ma una singola foto non fa l’autore, non fa l’artista. Serve costanza e perseveranza, l’artista si vede nella consequenzialità».

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