Ero letteralmente stregato. Quel gioco aveva catturato inevitabilmente la mia attenzione. I primi sintomi arrivarono in un luglio del 1982. Spezzoni di un’estate dell’infanzia, colorata da bandiere tricolori e scandita dal suono della parola ‘Pablito’. Poi giunsero le figurine, le radiocronache della mia Reggina e i gradoni dello stadio, il Napoli di Maradona, la Samp di Boskov. E spostando lo sguardo oltre i confini, il Liverpool oltraggiato giornalisticamente dopo la strage di Hillsborough. Ancora l’Argentina di Diego, e il Camerun di Roger Milla che riuscì addirittura a domarla nell’apertura di un Mondiale. Perfino la Bulgaria di Stoičkov che diede una lezione alla Germania, detentrice della Coppa. E, in tempi recenti, la tenacia della Spal di Semplici e la bellezza del Napoli di Sarri. Quante emozioni mi ha regalato il calcio.

Se ci penso bene, l’ho sempre associato a uno strumento di riscatto, un linguaggio universale che ristabilisce le distanze fra centro e periferia. Un non-luogo geografico, ricreabile ovunque ci sia spazio e voglia di giocare. Un territorio mediano fra astrazione e concretezza. E quanto mi hanno appassionato le vicende di campioni che scelsero di giocare in periferia. Fosse l’avventura di una notte, o la storia di una vita. Per non parlare delle ore trascorse da piccolo, insieme agli amici, a dar vita a partite estenuanti in campi improbabili, a usare la saracinesca di un negozio dismesso come porta per giocare alla tedesca, e affinare i tiri. Meno uno al portiere per il gol di piede, meno tre per quello di testa, meno quattro per quello di tacco. Colpendo il pallone al volo e centrando il perimetro della lamiera, è più facile sognare di essere Baggio o Stojkovic, Careca o Van Basten, Hagi, Gullit o Matthäus. L’effetto a giro del pallone calciato sulla barriera e depositato nel sette, io e i miei compagni, lo avremmo osservato dal vivo qualche anno più tardi, nel campetto di Sant’Agata, durante gli allenamenti di Andrea Pirlo alla Reggina. Traiettorie arcuate sulle teste artificiali delle sagome della barriera, come prime vittime della sua arte balistica.

Il fiore all’occhiello di una squadra di provincia che debutta in serie A. Come tante altre, le cui ambizioni in fondo si assomigliano tutte. Come la stessa compagine ferrarese, che ‘debutta’ a distanza di mezzo secolo dall’ultimo anno che ha frequentato la massima serie. E come la sua avversaria, quel Benevento artefice anch’esso di una doppia promozione, che in pochi avrebbero pronosticato a inizio dello scorso campionato. Come se s’incontrassero Crotone e Frosinone, con il sottofondo musicale di Rino Gaetano, che pronuncia il verso di ‘Mio fratello è figlio unico’. Quanto stupore nel vedere una provinciale esistere e resistere fra le grandi. Quanti discorsi rubati nei bar vicino all’università, a convincermi del senso di collante sociale di questo sport. Che, come tutti i fenomeni di aggregazione, trascina con sé anche elementi patologici. Quanto moralismo in chi si limita a stigmatizzarli, etichettando il calcio come subcultura violenta e primitiva. Quanti autori di libri a coglierne le sfumature più ruvide, più ironiche e più poetiche, da Galeano a Soriano, da Pasolini a Hornby. Quanti interessi economici intorno al pallone, e quante relazioni nate magari seguendo i colori della stessa squadra. O, potenza paradossale del karma, di due squadre diverse.

Ecco, di tutto questo continuo a rimanere stregato. Come la strega che, in virtù dei riti pagani che pare vi si svolgessero, è il simbolo del Benevento, avversaria domenicale della Spal. Una rivale che, in un certo senso, ha condiviso qualcosa con la squadra spallina. Il lungo percorso affrontato nella scorsa stagione, una cavalcata condotta dalla serie cadetta alla massima serie, in barba alle previsioni più rosee, che è stata compiuta quasi parallelamente ai biancazzurri. Una sorta di curioso legame rinsaldato dal gol del reggino Ceravolo, oggi al Parma, che con la casacca giallorossa del Benevento piega il Frosinone, spedendo matematicamente gli spallini in serie A. E dall’affetto improvviso piombatogli addosso sui social dalla città estense. Momenti di gioia episodica sono presenti anche nel campionato attuale, come la rete magistrale di Ciciretti su punizione alla Juventus, che probabilmente è piaciuta anche a Pirlo, che di voli a planare del genere era uno specialista. O come lo storico pareggio al Milan strappato negli ultimi minuti, ad opera del portiere Brignoli, entrato a pieno titolo fra i pochissimi autori di un record. Lampi di luce, appunto. Esplosioni fugaci di euforia in un fondale di classifica dove per adesso predomina il silenzio. Eppure di tanti piccoli e grandi dettagli è intrisa la storia di ogni comunità sportiva. E provare a volgere lo sguardo verso il centro da un punto di osservazione incastonato in periferia è un esercizio prezioso. Per non smarrire la bellezza di rimanere stregati.

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