Si chiamano Psycodrummers, sono in tredici, a volte fanno paura, altre volte fanno ridere, rumorosi sempre. Se non li avete già incrociati nelle scorse edizioni dei Buskers, oppure a qualche festival o concerto in giro per l’Italia, domenica sera non dovete perdere la loro esibizione – suoneranno alle 20 in piazza Municipale. Se avete già avuto occasione di vederli dal vivo… sicuramente non li avete dimenticati!  I loro strumenti sono dei grandi bidoni blu, percossi con forza, li si sente da lontano. Ed è difficile definire il loro live un concerto, assomiglia di più a un rituale, un gioco di squadra, un momento quasi catartico per l’energia che sanno far vibrare nell’aria ad ogni colpo sferzato.

Listone Mag ha voluto conoscere meglio questo particolare collettivo artistico, già da tre anni ospite fisso del Buskers Festival, per questo ha incontrato Marcello Martucci, l’unico ferrarese del gruppo, anche se proprio ferrarese il ragazzo non è. Ha 31 anni, è originario di Martina Franca, si è trasferito nel 2005 nel capoluogo estense per studiare e oggi lavora in una cooperativa sociale, dove si impegna per i richiedenti asilo.

«In verità quasi tutti gli Psycodrummers lavorano nel sociale. Altri tre sono nel mio stesso settore, quattro sono educatori specializzati nella disabilità mentale, c’è anche uno psicologo che lavora in carcere e per il Sert. E poi c’è anche chi fa cose completamente diverse, come il giornalista oppure il compositore».

Suoniamo assieme da tre anni. Il più giovane ha 17, il più vecchio 42. Solo io abito a Ferrara, gli altri sono di Rovigo, Solesino, Stanghella, Monselice, insomma tra Rovigo e Padova. Io sono l’extracomunitario. Gli altri ragazzi sono Alessandro Alfonsi, Alessandro Callegaro, Enzo Lavezzo, Luca Marcello, Marco Masola, Alberto Polato, Simone Pizzardo, Davide e Nicola Rigato, Edoardo Rossetto, Rossano Tamiazzo e Edoardo Visentin.

La prima uscita è stata nell’estate 2015, per il carnevale di Solesino. Il costume era bellissimo, davanti alla faccia tenevamo una stoffa bianca tutta bucherellata, indossavamo delle felpe multicolore trashissime e dei jeans inguardabili. Il progetto è nato da due persone: Luca e Alberto, che suonavano assieme in gruppo dedicato alla world music, brasiliana e africana, dove Luca era il percussionista e Alberto il batterista. Decisero quasi per scherzo di provare a valorizzare il suono dei bidoni, da cui si possono ricavare i tre suoni classici delle percussioni, il basso, il medio e l’alto. Sparsero la voce agli amici e ai percussionisti della zona. Loro sono di Solesino e Rovigo. Così si è formato il primo nucleo, ed eravamo già in dieci, adesso siamo in tredici. Musicalmente lavoriamo su basi africane e latine, il background che abbiamo è quello. Per i curiosi: la prima prova in assoluto si trova online

Da dieci a tredici, pensate di espandervi ancora? La formazione è aperta?

Il gruppo è aperto, l’idea è sempre stata quella di ingrandirci. Ci piacerebbe costituire una super bigband, magari con delle riserve che possano anche turnarsi se serve. Se qualcuno vuole partecipare basta che si faccia avanti, anche se per correttezza devo dire che non è proprio facile. Bisogna prendere confidenza con lo strumento, ci vuole tempo e anche la voglia di inserirsi. Da poco è entrato un componente nuovo, Giampi.

Ogni quanto provate?

Una volta a settimana, e tutti ci guardano male quando lo diciamo, “così poco?”. Sì, così poco e con grande fatica perché mettere assieme tredici persone ognuna col proprio lavoro e i propri impegni non è immediato. La nostra prima sala prove è stata il parcheggio dell’interporto di Rovigo, dalle 9 di sera in poi, una volta a settimana per due anni. I camionisti erano felicissimi di ascoltare le nostre prove! Quando pioveva andavamo sotto il cavalcavia di via del Lavoro. Adesso siamo più fighetti: ci servivano gli specchi per creare le coreografie e un tetto per evitare la pioggia, quindi ci siamo spostati all’Atelier Danza, sempre a Rovigo.

Da dove arrivano i vostri strumenti?

Tutti gli strumenti che usiamo sono riciclati, ovvero sono il frutto delle discariche, sia i bidoni piccoli da trenta litri che quelli grandi.  Li va a cercare Luca di solito, in zona Rovigo e Padova. Gli imbraghi sono tubi modellati con phon industriali, si trovano in ferramenta. Ci interessa il recupero e il messaggio che contiene: anche lo scarto prodotto dalla società può diventare armonia, musica, emozioni, può essere utile.

Il pubblico spesso è incuriosito vostro abbigliamento. Avete iniziato con le felpe trash, vi ricordo anni fa anche con delle specie di gonnellone arancio e una maschera stile Hannibal Lecter. Quanto conta l’estetica, che significato ha?

Il look è sempre stato un argomento di discussione. Quello che hai visto tu era quasi giapponese: le gonne le aveva cucite Nassir, un sarto pachistano, le indossavamo con lo smanicato e la maglietta nera. La maschera l’abbiamo sempre indossata, per sottolineare come l’unica comunicazione che vogliamo attivare è quella che passa attraverso la musica, il movimento, l’energia. Ovviamente si è prestata e si presta a fraintendimenti. Nel periodo in cui l’Isis finì sulle prime pagine dei giornali spesso suonavamo in piccoli paesi, soprattutto in Veneto, e le facce degli abitanti quando ci vedevano passare erano tremende, veramente preoccupate. Dopo il look giapponese decidemmo di giocare sul contrasto, quindi camicia bianca, cravatta e giacca.

Foto di Giacomo Brini

Dal carnevale di Solesino ai concerti di Giorgia, dalla strada ai palazzetti. Com’è successo?

Il nostro habitat naturale è la strada, la maggior parte dei concerti l’abbiamo fatta lì, il volume è alto ma suoniamo in acustico, stando in mezzo alla gente. Questo ci ha fatto sentire sempre a nostro agio. Specialmente alle sagre è bello come cambiano le facce delle persone. Lo spettacolo ha un crescendo: dal preoccupato, impaurito, al divertito e infine coinvolto. C’è un po’di tutto, assieme. Momenti in cui facciamo anche i cretini, sketch comici, in altri momenti invece è la musica che fa da padrone. Nei festival ci siamo resi conto che dal palco funziona altrettanto, con la differenza che le persone sono predisposte ad ascoltare quello che stai facendo, non hanno mai visto sentire suonare dei bidoni in questo modo. Suonare amplificati amplifica anche l’impatto sul pubblico. Aprire i concerti di Giorgia è stata fino ad oggi l’incarico più impegnativo. Ci ha chiamato Etienne Jean Marie, coreografo e ballerino che vive in Veneto. Ha visto i nostri video e ci ha segnalato a Emanuel Lo, marito della cantante e direttore artistico del tour. Ci ha invitato ad esibirci a Mantova, alla prima data. È andata benissimo ma a livello personale è stato tosto. Due giorni di prove al Palabam a Mantova, poi l’intervento in “Regina di notte”, uno degli ultimi singoli, e poi dieci minuti da soli. La risposta è stata super, quasi tutti i palazzetti erano sold out e abbiamo fatto i più grossi d’Italia, Milano, Torino, Bologna, Padova. È stato faticoso e anche stressante, da un punto di vista psicologico, all’inizio eravamo tremolanti ma data dopo data andava sempre meglio. Abbiamo chiuso a Torino e ci siamo proprio divertiti, ci siamo goduti lo spettacolo di essere su quel palco. Giorgia con noi è stata splendida, sembrava una zia. Il giorno che siamo andati a conoscerla la prima cosa che ci ha chiesto è se avevamo mangiato.

Siete stati invitati a chiudere la trentesima edizione del Buskers Festival, che rapporto avete con questa manifestazione?

Siamo particolarmente legati al festival, da quando abbiamo costituito il gruppo non abbiamo mancato un’edizione e dentro ci sentiamo sempre dei buskers. Il primo anno avevamo tre spettacoli, sia l’anno scorso che quest’anno invece siamo stati chiamati per l’intervento conclusivo, che si tiene quando tutti gli altri concerti sono conclusi. Faremo una piccola parata e poi il live. Suonare in strada con le persone a un metro di distanza ci dà tutta un’altra energia, più collegata al pubblico, e il cerchio è sempre bello, quello che formi con la gente. Dà altre risposte.

Progetti futuri?

Il concerto finale alla Fête de la Musique di Ginevra, a cui abbiamo partecipato in giugno, ci ha dato una grande spinta, ci ha convinti a sperimentare con l’amplificazione e provare a inserirci nel grande mondo dell’elettronica. L’idea è ancora da costruire, ma ci piacerebbe produrre musica elettronica dal vivo sul palco, con pad e altri strumenti, accompagnata al live dei bidoni e di altri strumentini che stiamo preparando in garage.  Abbiamo già in cantiere dei pezzi in questa direzione, anche se ovviamente ci piacerebbe continuare sia sul palco che per la strada, portare avanti entrambi i percorsi.

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