A pagina duecentosettantatré dell’Almanacco del Calcio Panini, quello del 1990, c’è una foto della squadra del Cosenza che in quella stagione partecipava al campionato di serie B. È una foto scattata prima di una partita, sullo sfondo si vede una tribuna gremita di persone. Tra i giocatori “accosciati” (questa la burocratica dicitura dell’Almanacco) c’è un ragazzo biondo, minuto, lo sguardo severo di chi prenda maledettamente sul serio la vita e il suo lavoro, un lavoro che fin da quando era bambino e giocava nel cortile di casa tirando calci al pallone contro un muro e facendo ammattire papà Domizio, aveva sempre sognato di fare. Accanto al nome di quel ragazzo così gracile e serio, tra parentesi è annotato: “deceduto il 18-11-1989”. Quel ragazzo si chiamava Donato “Denis” Bergamini e la sera di quel sabato diciotto novembre, una brutta sera di pioggia, il suo corpo senza vita giaceva lungo la carreggiata della statale 106 Jonica, ai piedi di un camion Fiat 180 carico di mandarini, all’altezza di Roseto Capo Spulico.

Denis (come avrebbe voluto chiamarlo sua madre Maria se un funzionario senza fantasia del comune di Argenta non si fosse rifiutato di registrare un nome così “esotico”) aveva solo ventisette anni ed era arrivato a Cosenza quattro anni prima, nel 1985. Cresciuto a pane e pallone, la sua prima squadra era stata quella del piccolo paese di Boccaleone, una frazione di Argenta addossata alla statale e al fiume Reno. Proprio nel campetto dietro casa era iniziata per Denis una carriera che, se non si fosse interrotta così bruscamente, lo avrebbe senz’altro portato ai vertici del calcio italiano, come ricorda la sorella Donata Bergamini: “Nell’estate del 1989 Bruno Giorgi, che lo aveva allenato a Cosenza l’anno prima, voleva portare con sé Denis alla Fiorentina per farlo giocare insieme a Baggio. Sempre quell’estate il Parma di Nevio Scala fece di tutto per acquistarlo, ma lui volle rimanere a Cosenza dove si trovava benissimo”.

Come in tutte le storie di calcio italiane, soprattutto fino a qualche anno fa quando non c’erano settori giovanili organizzati scientificamente come oggi, anche in quella di Denis c’è stato qualcuno che per primo ha intravisto del talento in quel ragazzino che, rispetto ai suoi coetanei, tardava a sviluppare il fisico. È, infatti, Roberto Cavecchia che fa esordire Denis, appena sedicenne, nella prima squadra del Boccaleone in terza categoria e poco dopo lo segnala a Rino Mazzi, allora allenatore dell’Argentana, la squadra che ha sempre fatto da principale polo d’attrazione per i giovani calciatori del medio e basso ferrarese. “Anche oggi quando ripenso a Denis – racconta commossa Donata mentre sfoglia l’album con i ritagli degli articoli di giornale dedicati al fratello – me lo rivedo ragazzino quando giocava nell’Argentana, così esile da fare tenerezza e ricordo che quando vedevo gli avversari, degli omoni grandi e grossi, andargli addosso per contrastarlo stavo male. Poi, però, lui sbucava sempre con la sua maglietta rossa e io ero felice”.

Ad Argenta Denis rimane un paio di stagioni, quelle che servono a capire come le sue doti di giovane mediano veloce e tecnico (il classico numero otto della numerologia calcistica) abbiano bisogno di altri palcoscenici per esprimersi. Com’è naturale per uno come lui, nato in quella parte della provincia di Ferrara al confine col ravennate, è verso la Romagna che la sua carriera di calciatore si indirizza, anche perché da quelle parti il livello del calcio dilettantistico è davvero alto, sull’onda della rivoluzione portata dalla “zona” di Arrigo Sacchi da Fusignano. Nel 1982 passa all’Imolese in serie D e dopo appena nove mesi si trasferisce al Russi sempre in D, dove rimane fino al 1985. Proprio a Russi, un giorno del campionato 1984-85 si presenta Roberto Ranzani (calciatore scoperto da Paolo Mazza negli anni d’oro della Grande Spal prima e dirigente biancoazzurro in anni più avari di soddisfazioni poi), allora direttore sportivo del Cosenza. Ranzani era salito in Romagna per visionare un altro giocatore, ma dopo aver visto Denis fu talmente impressionato dal suo talento che lo volle portare subito in Calabria. “Un giorno, mentre ero al lavoro in campagna – ricorda Domizio Bergamini – venne a trovarmi Lino Dalla Valle (storico presidente del Russi, n.d.a) per dirmi che volevano Denis a Cosenza in serie C. Io non ero molto contento, perché Denis si sarebbe dovuto allontanare da casa, ma lui era felice e quando, poi, abbiamo visto che laggiù si trovava bene siamo stati contenti anche noi”.

Foto di Piero Cavallina

A soli ventitré anni Denis fa il grande salto nel calcio professionistico e diventa rapidamente uno dei punti fermi del Cosenza, oltre che un idolo della tifoseria. A Cosenza trova un altro calciatore ferrarese, il portiere Luigi Simoni di Massafiscaglia, che per lui diventerà come un fratello; mentre qualche anno dopo arriverà Rudi Brunelli, pure lui cresciuto nell’Argentana. Sono anni molto belli per Denis che non soffre il passaggio dal suo piccolo paese alla grande città del sud né l’allontanamento dalla famiglia, anche perché, appena possibile, Domizio, Donata e tutta la famiglia Bergamini prendono la macchina e partono per andare a vederlo giocare: “Ci siamo girati l’Italia  – ricorda Donata. – La cosa più straordinaria era lo spettacolo dei tifosi del Cosenza, mi sembrava un sogno; Denis amava moltissimo quell’ambiente”.

Entusiasmo che esplode nella stagione 1987- 88, quella della promozione in B, attesa a Cosenza da ventiquattro anni; con trentadue presenze Denis è uno dei protagonisti di quel successo e si prepara al suo primo campionato di serie B, ma un brutto infortunio lo costringe a saltare quasi l’intera stagione successiva. Si arriva, così, al campionato 1989-90 che si annuncia quello della consacrazione per Denis, che ha appena firmato un ricco contratto col Cosenza ed è cercato da importanti squadre di serie A: le alternative sono andare a correre e sudare per Baggio alla Fiorentina o accasarsi al Parma di Nevio Scala, vicino a casa, in quella che, di lì a pochi anni, si sarebbe affermata come una delle più belle realtà del calcio italiano ed europeo. Ed è proprio allora, quando quel ragazzo di ventisette anni è sul punto di realizzare i suoi sogni di bambino, che tutto finisce bruscamente e le vite di Denis e dei suoi famigliari vengono come risucchiate in un buco nero.

Le indagini sulla morte di Denis Bergamini presero rapidamente la strada del suicidio: secondo la testimonianza di Isabella Internò, la sua ex ragazza presente al momento del fatto, Denis si sarebbe gettato sotto le ruote di un camion che procedeva sulla statale 106 Jonica in direzione Taranto, all’altezza di Roseto Capo Spulico. Suicidio stabilì anche il processo che si concluse nel 1992 davanti alla Corte d’Appello di Catanzaro. Pochi, però, hanno creduto allora e credono tutt’oggi a questa verità, prima tra tutti la famiglia Bergamini: “Quello era il momento più bello della vita di Denis – commenta Donata -. Quell’estate aveva firmato un contratto importante col Cosenza, l’anno dopo probabilmente sarebbe andato a giocare in serie A. Il sabato mattina prima della tragedia, all’allenamento in preparazione della partita della domenica, era di ottimo umore e aveva incitato i compagni a impegnarsi per battere il Messina. E poi era strano che la sera prima della partita si trovasse così lontano da Cosenza, lui che non aveva mai saltato un ritiro; il fatto che l’incidente fosse avvenuto alle 19.30 significava non giocare la domenica e questo comportamento era inconcepibile per uno come Denis”.

Sulla morte di Denis dopo il clamore dei primi tempi scese il silenzio. A parte i giornali locali, a livello nazionale sono stati pochi quelli che hanno continuato ad interessarsi del caso, tra questi Carlo Petrini che, nel 2001, pubblicò un libro, Il calciatore suicidato, che smontava punto per punto l’inchiesta sulla morte di Denis, arrivando a definirla “un mezzo disastro”. In effetti troppe cose non quadrano, come sottolinea la stessa Donata: “Prima di tutto per quale motivo Denis si trovasse a quell’ora a cento chilometri da Cosenza, in compagnia di quella ragazza (Isabella Internò) con la quale si era lasciato otto mesi prima; poi ricordo che quella notte, quando andammo alla caserma di Roseto, a mio padre fu consegnata una busta gialla contenente alcuni effetti personali di Denis, tra cui l’orologio ancora funzionante e la catenina perfettamente intatta. Strano, visto che ci avevano detto che mio fratello era stato trascinato dal camion per sessanta metri. Altra cosa strana era che la macchina di Denis fosse completamente pulita: incredibile visto che, a quanto ci dissero, prima di uccidersi Denis l’aveva parcheggiata in una piazzola sterrata al lato della strada e che quella sera pioveva. Nemmeno le sue scarpe avevano tracce di fango. Quando, poi, andammo all’ospedale di Trebisacce per riconoscere il corpo – continua Donata – mi sconsigliarono di vederlo, perché dicevano che era distrutto. In realtà era praticamente intatto, il viso non aveva neanche un graffio. Ricordo che mi sono sentita male: ci avevano detto che Denis era finito sotto a un camion che lo aveva trascinato per dei metri e, invece, il corpo era quasi integro”.

Nel 2011, anche sull’onda della grande manifestazione davanti al tribunale di Cosenza del 27 dicembre 2009 per chiedere “Verità per Denis” a cui parteciparono circa 400 persone e del tam tam sui social, la famiglia Bergamini riuscì ad ottenere la riapertura delle indagini, questa volta con l’ipotesi di “omicidio volontario”. Alla manifestazione del 2009 – ricorda ancora Donata – ci siamo accorti che non c’erano solo i tifosi del Cosenza a sostenerci, ma anche gran parte della società civile. Purtroppo, nonostante il materiale prodotto dal nostro avvocato e nonostante le perizie che ci davano ragione, nel 2015 il tribunale di Castrovillari ha archiviato di nuovo il caso e ancora oggi siamo fermi al suicidio”. È storia di questi giorni la nuova riapertura delle indagini: “Fin da subito siamo stati convinti che Denis sia stato ucciso – conclude Donata – non abbiamo mai avuto dubbi su questo. Sul perché e sul come è difficile fare una ricostruzione, preferisco non fare supposizioni, anche perché credo che siano già state dette troppe cose. Quel che è certo è che noi non ci fermeremo fino a quando la verità non verrà a galla; non è questione di non voler accettare, è questione che tutto quello che è emerso in questi anni va contro quanto sostenuto dalle testimonianze”.

Ventisette anni sono passati, tanti quanti ne aveva Denis quella maledetta sera di novembre. Ventisette anni in cui papà Domizio, Donata e mamma Maria hanno lottato e continueranno a lottare per cercare di scoprire la verità sulla morte del loro amato Denis, una verità che, per quanto dolorosa, possa dare pace al ricordo di quel bambino piccolo e gracile che correva dietro a una palla nel cortile di casa a Boccaleone.

(tutte le foto storiche appaiono per gentile concessione di Donata Bergamini)

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