di Ruggero Veronese

Non so come iniziare questo pezzo: da dove si dovrebbe partire, dopo aver intervistato uno dei più grandi percussionisti degli ultimi 50 anni, oltre che simbolo della lotta all’apartheid? Dal suo curriculum musicale, del suo stile, delle decine di amicizie e collaborazioni con mostri sacri del rock e semidivinità del blues? Dovrei puntare sul suo impegno sociale, sui grandi eventi contro la fame in Africa, sul contributo alla nascita della world music? O forse dovrei scegliere un approccio più action e raccontarne il passato da dissidente politico sudafricano, con tanto di aneddoti su Mandela, manganellate sulle tibie e nottate iniziate su un palco e terminate nelle galere di Johannesburg?

Foto di Giulia Paratelli

Foto di Giulia Paratelli

Troppo biografico, non so. Magari qualcuno di voi ha già visto le foto con la faccia sorridente e la Telecaster di Roberto Formignani e ha capito che, oltre a qualche storia avventurosa, c’è anche qualcos’altro che bolle in pentola. Qualcosa di grosso, musicalmente parlando. Di coraggioso e sperimentale. E anche di giusto, che diamine. Perché dopo 56 anni Dan Chiorboli è tornato nella sua città natale – proprio qui! – per dar vita a un nuovo progetto internazionale: raccogliere, incrociare e riarrangiare le canzoni partigiane di chi – dalle rive del Po ai ghetti dell’apartheid, passando per i ruderi bombardati di Kobane – combatteva e ancora combatte contro regimi e dittature. Il tutto con l’aiuto di una parata di star che vanno dal buon vecchio Giovanni Lindo Ferretti a Phil Manzanera, passando per Neil Solomon e con la benedizione di sua maestà Paul Simon. Ripeto, per chi non era attento: lo si farà a Ferrara, proprio qui dietro. 

Pretenzioso, direte voi. Interessati ma scettici. O magari poco ballabile, ripensando alle canzoni della nonna. Ma credetemi, è solo perché non conoscete il soggetto. Io l’ho incontrato in un pub, verso le sette e mezza di sera durante il weekend di Internazionale. Mi avevano detto che c’era questo importante musicista in città, un pezzo grosso del rock anni ’70, che stava facendo delle ricerche per un  nuovo progetto con alcuni nomi molto noti. Tutto molto fumoso, quasi massonico, quindi ci piace e andiamoci. E infatti eccolo là, coi suoi capelli lunghi e quella faccia rilassata che fanno i rocker stranieri quando visitano le città italiane, per giunta con un depliant di Internazionale in mano. 

Foto di Giulia Paratelli

Foto di Giulia Paratelli

 «Wonderful festival» concordiamo tutti cortesi e sorridenti, ma è davanti al bancone che si rompe il ghiaccio. Dice che è la prima volta che torna così vicino alla casa dove è nato 60 anni fa, in via Carlo Mayr 48, e che la cosa gli fa uno strano effetto. La sua famiglia lo caricò in aereo per andare a vivere in Sudafrica quando era piccolissimo, a quattro anni. Ma oltre alle ragioni personali è un nuovo progetto musicale a portarlo qui: Dan vuole unire le sonorità africane ai canti della Resistenza italiana e creare una connessione tra i “popoli partigiani” che in ogni parte del mondo portano avanti le proprie battaglie per la libertà. Non solo Italia e Sudafrica, quindi, ma anche Sud America e Medio Oriente. E quando si parla di partigiani, coi tempi che corrono, si parla di kurdi: «Ho saputo che c’è un italiano che combatte con loro, Karim Franceschi: mi piacerebbe prendere contatto con lui. Vorrei dedicare una delle nostre canzoni al popolo kurdo».

La storia comincia a farsi interessante: Dan non è solo un musicista pazzesco (in coda vi inserisco un paio di link su youtube), ma a quanto pare è anche uno capace di mobilitare parecchi nomi parecchio importanti quando le cose si fanno serie. Per dirne un paio: è tra gli organizzatori del Womad (uno dei più grandi festival musicali itineranti del mondo, fondato negli anni ’80 da Peter Gabriel) e ha curato tutti gli show musicali durante i mondiali del Sudafrica di tre anni fa («Ma le vuvuzela se le portavano da casa»). A Durban, dove vive, organizza tutti gli anni un grande concerto per promuovere i diritti umani in Africa ed è attualmente impegnato in un progetto umanitario per il Kenya. Beve birra con elegante agilità e non vede l’ora di offrirtene un’altra. 

Foto di Giulia Paratelli

Foto di Giulia Paratelli

Con tutto questo attivismo sociale per l’Africa, buoni sentimenti e con tutti questi discorsi sui gloriosi anni ’70 sembra quasi di essere al pub con Bob Geldolf. Cristo, sono pure identici. Anche la barista che ci sta riempiendo i boccali ne conviene: un’altra doppio malto per il signor Geldolf. Ma credetemi, qua siamo su altri ed alti livelli. Perché Dan la rivoluzione non l’ha solo cantata: l’ha fatta sul serio. Giù in Sudafrica quando tendere la mano a un nero era più di una sfida alle regole dello Stato, ma anche un tradimento verso la propria famiglia e i propri conoscenti che metteva a rischio il lavoro, la libertà e il futuro. Questa è la vera gente da cui prendere esempio! Quindi al diavolo il festival e gli aneddoti sui Pink Floyd e Giovanni Lindo che per te esce dall’eremitaggio: raccontami di quegli anni, Dan. Raccontami di come avete rivoltato il Sudafrica come un calzino bagnato.

Dan parla alternando inglese e italiano: «Eravamo in tre, da giovani: io, Neil Solomon e Roger Lucey (ora tra i più noti cantautori del paese, ndr). Quando avevamo 15 o 16 anni eravamo ribelli, volevamo suonare con i neri, ma dovevamo andarci di nascosto. Io ho avuto tanti litigi con mio padre, che era molto conservatore e voleva che smettessi. Sono stati anni difficili ma esaltanti». Dan parla poco della famiglia: lo fa solo quando si scusa per il suo italiano, perché da quando è morto il padre non lo parla più. Il genitore è sempre rimasto sul fronte politico opposto e le discussioni tra i due devono essere state piuttosto difficili. 

Foto di Giulia Paratelli

Foto di Giulia Paratelli

Ma famiglia e colore della pelle non bastano a fermare Dan, che negli anni ’70 è già uno dei percussionisti più conosciuti e rispettati nella comunità nera – per meriti umani e musicali – oltre che amico personale di diversi esponenti dell’Anc, African National Congress, il partito per la lotta all’apartheid in cui milita Mandela. «Sono stato in prigione per tre volte in quegli anni, ma mai per periodi lunghi come capitava ai neri che venivano mandati a Robben Island. Arrivavano durante i concerti e ci arrestavano. Nella centrale della polizia ci davano un po’ di botte e ci rasavano a zero i capelli – Dan ci scherza su, come se fosse la cosa più naturale del mondo -. Ogni volta dovevo farmi ricrescere i capelli».

Sono gli anni in cui il giovane percussionista organizza e partecipa a centinaia di concerti contro l’apartheid, in un momento in cui la forza unificatrice della musica non è solo un bello slogan sulla carta ma un fenomeno tangibile, vero, potente e capace di incrinare un’intera struttura sociale basata sulla disuguaglianza. E che ha spianato la strada a una lotta per i diritti su tutti i fronti: «Dopo che i bianchi hanno cominciato a suonare e ballare insieme ai neri, è bastato poco perché cominciassero a parlarci e a farci l’amore. Dovevamo solo dare la prima spinta». Dan la fa semplice, ma insieme a Roger e Neil è stato tra i precursori di un cambio di mentalità a cui il resto della società sarebbe arrivata solo venti anni dopo. E nel frattempo anche nella comunità nera rimanevano dei muri da abbattere: «I bianchi nell’Anc erano davvero pochi in quegli anni, ma hanno dato un grande contributo. C’era molta diffidenza da parte dei neri, ma io come italiano ero più rispettato, perché avevamo un forte legame con il Partito Comunista di Reggio Emilia, che ci mandava degli aiuti». Fermi tutti, allora: un brindisi anche ai comunisti reggiani, ovunque siano adesso.

Beh, poi sappiamo tutti come sono andate le cose: alla fine i buoni hanno vinto e nel 1994 Mandela è stato eletto presidente. L’apartheid è finita da venti anni. Matt Damon ha girato un film in cui fa il capitano della squadra di rugby e Morgan Freeman dà il volto al presidente in trionfo. Eppure né Dan né Samantha, la sua fidanzata, sembrano entusiasti della situazione in patria. Anzi quando parlano della politica sudafricana non risparmiano le critiche: gli scandali emersi a livello internazionale sui successori di Mandela rischiano di minare le lunghe battaglie per i diritti combattuta per decenni da Dan e dall’Anc. «Sei finito tre volte in galera per difendere i neri e ora rischierai di tornarci per difendere i bianchi», gli dico. Lui sorride con un po’ di amarezza: la battuta è più realistica di quanto intendesse esserlo. Ancora una volta una rivoluzione è caduta vittima dei suoi stessi rivoluzionari.

Foto di Giulia Paratelli

Foto di Giulia Paratelli

Chi non cambia di una virgola invece è Dan Chiorboli, che anche oggi porta avanti la sua antica missione: usare la musica per eliminare le barriere tra le persone. Al servizio delle idee e non di chi le rappresenta. «Era importante farlo ai tempi dell’apartheid, lo è ancora oggi se i valori più scontati diventano quelli più trascurati». Un discorso valido tanto per il Sudafrica come per l’Europa, che Dan vede come «un continente pigro, che ha perso la voglia di ragionare e di lottare». Cercherà di smuoverlo con un tour nei teatri, ridando vita ai canti della rivolta al fianco di musicisti come Roberto Formignani, Giovanni Lindo Ferretti, Neil Solomon e N’Kali Kouyate, i primi ad aver dato la propria disponibilità. Ma non chiedeteci quando, dove o come sarà: Dan è al lavoro e ne sentirete ancora parlare, ma questa è solo un’anteprima, o forse un incontro al pub, o forse un semplice pretesto per parlare di rivoluzione. Ma una cosa è certa: dopo 60 anni di battaglie, tour e concerti in giro per il mondo, il più atipico dei ferraresi è finalmente pronto a calcare anche questi palcoscenici.

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