Ferrara, Ludovico Ariosto e l’Orlando Furioso: un legame indissolubile che ognuno di noi avrà sentito nominare fin dai banchi di scuola del liceo se ha avuto il piacere (o il dispiacere) di studiare quella che è una delle più grandi opere letterarie italiane di sempre. Dispiacere? Eresia! Come mi permetto?
Se escludiamo coloro che hanno proseguito gli studi nel ramo umanistico all’università sarebbe difficile trovare tra la gente comune qualcuno capace di citare un passaggio del Furioso, che ne conosca la storia, i personaggi, l’importanza. Parliamoci chiaro: il poema ariostesco è un’opera enorme, una selva intricata in cui perdersi, piena di bivi, dove tutti cercano qualcosa e trovano qualcos’altro. Incute timore reverenziale in ogni adolescente cui viene spiegata forzosamente nelle ore di italiano a scuola. Il momento per eccellenza in cui l’attenzione vaga per suo conto guardando fuori dalla finestra o in cui un’escursione fino alla più vicina macchinetta del caffè sembra davvero necessaria. Ariosto ha scritto un capolavoro, ma va digerito, compreso, spiegato, affinché rimanga nell’immaginario collettivo qualcosa di più di un semplice titolo.

A venire in aiuto ad un ripasso generale e ad una comprensione più profonda dell’importanza storica di quest’opera è la mostra di Ferrara Arte “Orlando Furioso 500 anni: cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi?” che inaugura sabato 24 settembre, da questo punto di vista davvero un piccolo capolavoro. Per la prima volta verrà distribuita gratuitamente un’audioguida in mp3 a tutti i visitatori, così da permettere di seguire il percorso espositivo con la voce narrante dei curatori Guido Beltramini e Adolfo Tura, in grado di spiegare e far comprendere ogni intreccio tra arte, cultura e storia necessario ad una piena comprensione della mostra e alla ricostruzione di un periodo in cui l’Italia ancora disunita politicamente muoveva i primi passi verso una cultura artistica e letteraria pienamente coesa ed italiana.

Perché ci interessa cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? Che domanda è mai questa? Non si è mai sentita una mostra dal titolo “Cosa mangiava De Chirico quando dipingeva?” (seppure la scorsa mostra ai Diamanti in parte raccontava anche questo) oppure “Dove passeggiava Bassani quando componeva le Storie ferraresi?”, per quanto sarebbero invece domande importanti da porsi. L’ambiente intorno all’artista è ciò che influenza la sua capacità immaginifica, che lo porta a compiere ogni scelta e a sapere cosa e come rappresentare i soggetti sulle proprie tele o le storie di un componimento letterario. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? Quando immaginava Carlo Magno, Orlando, i draghi o l’orca che mangia Angelica: da dove attingeva per poterli raccontare?

Partiamo dal principio e cerchiamo di capire insieme in pochi punti perché visitare questa mostra così originale, con le chicche che abbiamo scoperto durante la visita in anteprima riservata alla stampa.

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

1. Non c’era internet
Siamo nel 778 d.C. durante la battaglia di Roncisvalle: l’esercito franco di Carlo Magno sta tornando a casa e le popolazioni basche di montagna aggrediscono la retroguardia francese: tra i morti c’è Hruodlandus, poi divenuto Rolando nelle gesta narrate nel poema epico francese Chanson de Roland. Di questa battaglia viene realizzato un arazzo nel 1300, estremamente prezioso e realistico, oltre che veicolo di immaginazione e di storie. Il potere evocativo delle immagini all’epoca viaggiava grazie a oggetti simili: opere enormi che addobbavano saloni, castelli, palazzi. Non certo come oggi grazie alla rete, non certo come nel Novecento grazie a tv e fotografia. Un arazzo era nella migliore delle ipotesi la fonte di ispirazione dove potevi vedere narrate le imprese di cavalieri e Re in battaglie epiche. La battaglia è avvenuta nel 778, la Chanson de Rolande è del 1000, l’arazzo è realizzato alle fine del 1300. Passati lontani che ritornano e stimolano la fantasia di Ariosto, che il suo Orlando lo immagina proprio a partire da qui, quando lo vede a Ferrara insieme ad altri arazzi appartenenti alla corte Estense.

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

2. Il finto corno di Orlando
In mostra è esposto il cosiddetto olifante: da 1000 anni è ritenuto essere il corno di Orlando anche se come accade con molte reliquie non è affatto vero: la battaglia di Roncinsvalle è del 778, il corno è del 1000… Visto però che si racconta come Orlando colpì a morte l’ultimo saraceno con un corno e questo esemplare riporta delle fratture, venne attribuito comunque a lui e conservato come reliquia nella chiesa di Saint-Sernin a Tolosa.

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

3. L’infografica intrecciata (priva di Pacman)
Cristina Montagnani, insegnante di letteratura dell’Università di Ferrara ha sintetizzato l’intreccio delle vicende del poema ariostesco, con l’ausilio dello studio grafico veneziano Fludd. La terza sala, che contiene in parete un’enorme infografica è suggestiva e di grande impatto: rappresenta un modo contemporaneo ben riuscito di costruire e spiegare il racconto anche alle nuove generazioni. I primi sette canti sono raccontati con linee che si intersecano, simboli e personaggi che si perdono poi in un arabesco intricato e geometrico.
“Volevo che uno dei simbolini nella grafica – il fantasma di Argalia – fosse disegnato come uno dei piccoli mostrini di Pacman, ma non mi è stato concesso”, ha scherzato al riguardo il curatore Beltramini.
Al suo fianco è posizionata un’armatura da cavaliere, l’unica esistente così conservata e precedente al 1516, anno di pubblicazione del Furioso.

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Dal sito palazzodiamanti.it

4. Come ti cito il quadro
Minerva che scaccia i vizi dal giardino delle virtù è un quadro di Mantegna esposto nella quarta sala. Proviene dallo studiolo di Isabella d’Este cui Ariosto fa visita nel 1507. Di quell’anno è una lettera della marchesa considerata atto di nascita del Furioso: scrive al fratello Ippolito che ha conosciuto il poeta e le ha raccontato del suo componimento in lavorazione, che lei trova davvero di grande pregio.
L’opera di Mantegna è l’unico citato direttamente nel poema ariostesco: dove si parla di Ruggero nel giardino della maga Ancina pieno di una selva di mostri, la descrizione che viene fatta delle orrende creature è pari pari quella del quadro. Dove l’ha visto Ariosto? Nel camerino di Isabella, naturalmente: di nuovo osmosi tra la cultura visiva dell’epoca e il suo immaginario.

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Dal sito palazzodiamanti.it

5. La verde America
Il tempo di Ariosto fu anche segnato da grandi scoperte geografiche, quelle di Colombo e Vespucci ad esempio, verso terre sconosciute e meravigliose. Ariosto visse questa esperienza attraverso le pagine dei libri e la carte di navigazione come quella detta “del Cantino”, capolavoro rinascimentale esposto in mostra che mostra per la prima volta le coste dell’America, ancora da esplorare pienamente. Le coste orientali del Nuovo Mondo sono colorate di un verde intenso come di una terra rigogliosa e incontaminata. Ariosto scrive infatti: “…si vedranno i vessilli di Castiglia piantati sui verdi lidi americani.”

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

6. La luna di metallo e le ceneri di Cesare
In un allestimento molto riuscito e suggestivo viene mostrata una luna molto speciale, tra i protagonisti del poema quando Astolfo finisce proprio lassù per recuperare il senno di Orlando. Ariosto condivide con Leonardo l’idea che la luna sia in realtà una palla di metallo riflettente, interamente di acciaio. Assomiglia dunque “alle palle dorate poste nella sommità degli alti edifizi”. Leonardo si riferiva ad esempio a quella di ottone fatta dal suo maestro Verrocchio, presente in cima a Santa Maria del Fiore a Firenze. Quella esposta nella sala nove, sempre di ottone, proviene dalla cima dell’obelisco vaticano di Piazza San Pietro a Roma, oggi esposta ai Musei Capitolini. Si dice contenesse le ceneri di Giulio Cesare al suo interno. I crateri lunari che si vedono sono invece i colpi degli archibugi dei Lanzichenecchi nel 1527 durante il sacco di Roma.

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Foto di Andrea Bighi

7. Machiavelli è fuori dal giro che conta
La prima attestazione scritta di qualcuno che ha apprezzato l’Orlando Furioso, esposta in mostra nella sala dieci, porta la firma di Niccolò Machiavelli. Scrive infatti al suo amico Alemanni nel dicembre del 1517 spiegandogli che l’opera di Ariosto è molto bella ma ha un problema: nomina tutti i letterati italiani tranne lui, che dice di essere lasciato fuori “come un cazzo” (o come un cane, come una traduzione più recente ha corretto):

Se si truova costì, raccomandatemi a lui, et ditegli che io mi dolgo solo che, havendo ricordato tanti poeti, che m’habbi lasciato indietro come un cazzo, et ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino.

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

8. Visto si stampi, anzi no!
Ariosto è talmente ossessionato dalla qualità della sua scrittura che segue in prima persona perfino la stampa in tipografia. Si fa consegnare ogni foglio stampato e lo rilegge, se trova un errore lo corregge e lo fa ristampare al tipografo, che nel mentre ha già pronte altre copie del medesimo foglio. Il risultato è un numero considerevole di copie esistenti in circolazione che presentano qualche errore. Tutte tranne una, priva di refusi, del 1532, comprata dal filologo Santorre Debenedetti, poi donata a Cesare Segre. Lo scorso aprile è tornata al Comune grazie al lascito di 55 opere di quest’ultimo ed è quindi presente in mostra, oltre ad appartenere di nuovo alla città di Ferrara, come è giusto che sia.

Foto di Andrea Bighi

Foto di Andrea Bighi

9. La spada nella mostra
Ci sono ben due spade “magiche” in mostra: una appartiene all’ultimo emiro di Granada, sconfitto dagli spagnoli nel 1494, l’altra è la spada di Re Francesco I, depredata nel suo accampamento da Carlo V a Pavia e portata a Madrid. Quando il generale Gioacchino Murat conquista Madrid per conto di Napoleone, si reca nell’armeria, riprende la spada e la riporta infine a Parigi, dove Napoleone la tiene nel suo ufficio fino al 1816. Sull’impugnatura una scritta incisa è tratta dal Magnificat: “Fecit potentiam in brachio suo”, Dio dispiegò la forza del suo braccio.

Dal sito palazzodiamanti.it

Dal sito palazzodiamanti.it

10. Tiziano torna a Ferrara
Riportare a Ferrara il pezzo più bello dei camerini di Alfonso I d’Este, piccoli studioli ricchi d’arte un tempo presenti nel collegamento tra il palazzo ducale di Ferrara e il Castello Estense, sembrava un’operazione complessa e impossibile.
Tiziano dipinse quattro grandi tele per Alfonso e dal Museo del Prado si è ottenuta in prestito eccezionale Il baccanale degli Andrii, grazie alla mediazione del Comune e dell’Ambasciatore italiano a Madrid. Mancava da Ferrara dal 1598 e non venne mai più riportata nemmeno in Italia. Come nella celebre Leda e il cigno di Buonarroti è una figura di donna nuda a dominare la scena in primo piano, una ninfa dormiente di grande carica erotica.
Qualcosa che non passa inosservato agli occhi di Ariosto. Nella prima edizione dell’Orlando del 1516 l’Angelica nuda e attaccata allo scoglio è descritta con grande freddezza. Se non fosse per una lacrima che le cola dal viso, dice Ariosto “creduto avria che fosse statua finta”. Nel 1532 nell’episodio aggiunto di Olimpia dove la ragazza è incatenata per essere mangiata dal mostro la descrizione è invece dettagliata e travolgente, è lunga ben sei ottave contro la mezza di Angelica. Seni, capelli, carne, bellezza, sguardo… la carica erotica dei quadri di Tiziano visti nei camerini di Alfonso devono aver probabilmente scaldato l’animo del poeta e sciolto ogni pudicizia verso la figura femminile.

Alcuni dettagli dell’allestimento in corso, foto di Andrea Bighi

2 Commenti

  1. Eliseo Malavasi scrive:

    Bravo, competente e sopratutto…documentato! Nonostante le sue abitudini private, di nessun interesse, quel che conta è la passione ed il rigore. Ancora…

  2. fiorella dovigo scrive:

    Sono nel pieno della mia scoperta del rinascimento italiano. Mi ha emozionato leggere questo articolo.Grazie. Volo a vedere la mostra.

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