Il primo giorno che siamo andati al Bar Fiorella siamo arrivati troppo tardi. Sono passate le otto di sera e la saracinesca è già abbassata. Non credevamo chiudesse così presto. Non ci siamo accorti di nulla finché non ci siamo inoltrati sotti i portici, a causa dell’imponente impalcatura che ricopre interamente l’edificio, lasciando intravedere soltanto la vecchia insegna blu. Un ragazzo ed una ragazza stanno pulendo e sistemando le ultime cose. Il mio istinto è quello di andarmene. La zona davanti alla stazione comincia lentamente a riempirsi di ragazzi di colore in sella alle loro biciclette, qualche zingaro in cerca di elemosina ed italiani non proprio rassicuranti. Cristiano, il fotografo che mi accompagna, decide di bussare alla porta e fa ampi gesti per attirare l’attenzione dei ragazzi all’interno del bar. Si avvicina un tipetto magro che ci chiede cosa vogliamo. Ha dei tratti somatici asiatici, ma non è cinese. Ci scruta qualche attimo con un certo sospetto, mescolato alla curiosità. Gli spieghiamo che siamo venuti per raccontare la storia del bar, una vera e propria istituzione per i pendolari ferraresi. Ci risponde con estrema gentilezza e ci invita a passare domani, quando avremo potuto incontrare il suo datore di lavoro, un ragazzo cinese di nome Jang.

Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, sono già dentro al bar a sorseggiare un succo di frutta. Guardandomi attorno trovo che gli arredi principali, come il bancone e le colonne, sono rimasti quelli della mia giovinezza. Li ricordavo molto bene, davano al locale un nonsoché di accogliente, rendendolo il rifugio ideale per gli studenti pendolari che, come me, passavano ore sotto i portici aspettando la corriera che li avrebbe ricondotti a casa. Tra questi sobri reperti lignei degli anni ottanta si aggirano tavolini e lampadari moderni e minimali, uguali a quelli che si ritrovano in altri mille locali di oggi. Anche gli avventori creano uno strano miscuglio a vedersi: c’è il ragazzetto italiano che compra un panino, il gruppo di anziani che guarda la televisione, il giovane africano perennemente al telefono, l’autista pendolare che fa uno spuntino, la madre musulmana con il figlio tra le braccia…

Foto di Cristiano Lega

Dopo poco mi dicono che tra il gruppetto di clienti più attempati c’è il vecchio proprietario del bar, Leonardo Sgura, meglio noto come Franco. Il signor Sgura si presta volentieri a raccontarmi qualcosa e ci accomodiamo ad un tavolino. Tra i rocamboleschi aneddoti sulla sua vita (davvero avvincenti, ve lo assicuro), scopro che il bar è stato costruito negli anni sessanta e che lui l’ha preso in gestione nel 1982, rilevandolo da un fantomatico “Dottore” bolognese. Prima del suo arrivo il bar si chiamava Bisquit ed aveva un piano interrato adibito a ristorante e forse, prima ancora, a sala da biliardo. Il nome Fiorella è quello della moglie, che lo ha accompagnato per anni dietro al bancone. Ai bei tempi, sotto i portici del bar fiorivano svariati esercizi commerciali ed era in piena attività l’Hotel De la Ville, una struttura ricettiva di qualità oggi tristemente chiusa. Tutta Ferrara passava per il bar Fiorella.

Mentre io e Franco chiacchieriamo arriva un ragazzo cinese seguito da una nuvola di bambini sorridenti. Si tratta del proprietario attuale, che ha rilevato la gestione da una decina d’anni. Franco me ne parla con toni entusiastici e me lo presenta. Jang ha trentaquattro anni, è nato in Cina, nella regione dello Zhe Jiang, ed ha raggiunto la sua famiglia in Italia nel 1997. Sin dalle prime battute che scambiamo Jang mi incuriosisce. Ha le idee molto chiare, è determinato, intelligente, ci tiene a mostrarsi rispettoso: afferma con convinzione di essere un ospite nel nostro paese, e che lo sarà sempre. Il suo compito, mi dice, consiste nel comprendere e rispettare la cultura, le leggi ed il pensiero del luogo in cui si trova.

Racconta che i due anni dopo aver preso in gestione il bar sono stati molto duri. La gente non si inoltrava con piacere sotto quei portici desolati e non vedeva di buon occhio la gestione cinese. Jang, dal canto suo, voleva che la sua clientela si fidelizzasse e ritornasse quella di un tempo e, nel guardarsi attorno, sembra esserci riuscito. Il giovane proprietario l’ha presa come una sfida personale, desidera fortemente riportare in alto il nome del Bar Fiorella, farlo tornare ad essere un punto di riferimento per i pendolari e per tutti i lavoratori che gravitano attorno alla stazione. Per questo, rivela, non ha voluto cambiare il nome del locale ed ha mantenuto le vecchie insegne. La situazione in cui si trova Jang non è facile. Dentro il bar si respira un clima sereno, un’atmosfera familiare, ma fuori ci sono dei problemi reali. Jang può tenere sotto controllo tutto ciò che avviene nello spazio circoscritto dalle tre vetrate che delimitano il bar, ma considera una minaccia costante per lui e per i suoi clienti il degrado circostante.

Mentre parliamo arriva anche Cristiano, Jang gli offre subito un caffè. Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione in questa zona, gli chiediamo. «Servono regole precise e comunemente condivise, ogni cultura ha le sue, ma qui in Italia pare che tutti se ne dimentichino e facciano quello che vogliono». Secondo lui lo stato non riesce a controllare realmente le zone di confine quali la cosiddetta zona GAD, ed anche mandando via gli elementi perturbanti si sposterebbe solo il problema da un’altra parte, senza sradicarlo alla radice. Questo è il pensiero di Jang ed anche Franco sembra concordare con il suo successore.

Mentre discorriamo di leggi, di rispetto, di tensioni il tempo vola e noi ci troviamo a dover lasciare il bar Fiorella, mentre Jang ed il suo aiutante cominciano a ripulire.

Andiamo via con un senso di sollievo ed amarezza che si mescolano assieme. Allora non tutto è perduto?! Se esistono persone come Jang, disposte a lottare per un piccolo bar italiano posto in una zona difficile, c’è ancora da sperare. Forse, alle volte, le soluzioni coincidono con le persone.

10 Commenti

  1. Marco scrive:

    Da ex studente, o forse ancora e per sempre studente (occorre esserlo) ti ringrazio, Chiara, per la dolce atmosfera che condisce le tue parole, in questo racconto. Frequentavo questo bar dai 20 ai 30 anni fa, mi fai venire desiderio di passare e fermarmi, quantomeno per conoscere Jang.

  2. Matteo scrive:

    Bellissimo articolo, che non parla di razzismo, di delinquenza o di luoghi comuni. Leggendo si respira ottimismo e la pura essenza del giornalismo. Listonemag è a mio parere il GIORNALE della mia città.

  3. Nicoletta scrive:

    Grazie Chiara e grazie Listonemag. Abito in Gad (ai confini della zona critica trovandomi sull’altro lato di viale Cavour) e sento sempre troppe polemiche e troppa strumentalizzazione sul degrado di questa, sempre bellissima, zona della città. Ha ragione Jang su tutto e il suo modus dovrebbe essere preso ad esempio. Ci sono altre realtà, oltre alla sua e come la sua nell’epicentro della criticità, a dimostrare con umiltà e grande forza che sono le singole persone e fare la differenza (cito l’erboristeria del grattacielo e la pizzeria/ristorante sotto i portici di via Cassoli, con annesso chiosco, perchè le conosco essendone cliente, ma anche tutte le altre presenti che lavorano con serietà e dedizione). Andrò volentieri a prendere un caffè da Jang e sarò felice di usare il suo bar come punto di riferimento quando ne avrò necessità.

  4. Fabio Patanè scrive:

    Cara Chiara, mi pare un buon pezzo. Brava! Però, mentre mettevi insieme con tanto entusiasmo il ritratto esemplare del Sig. Jang, ti sei chiesta con quale competenza un cinese arrivato in Italia nel 1997 possa gestire un bar italiano, attività che rimane, prima di tutto, espressione di una cultura e tradizioni secolari? E non trovi triste che, per l’ennesima volta, un esercizio italiano finisca in mani straniere? Ti sei mai posta il problema del fenomeno dei bar cinesi? E ti sei mai chiesta cosa c’è dietro questo fenomeno – eclatante pure a Ferrara – , quali organizzazioni, quali interessi, quali illegalità, quali complicità? Io non conosco il signor Jang, non so come sia arrivato in Italia, né a quali condizioni abbia rilevato il bar, e neppure in che condizioni si lavori in tale posto. Mi basta e avanza tutto quello che ho visto, letto e sentito fino ad oggi, le pietose cronache belliche di un Paese in sfacelo. E questo tuo ritratto edificante non ha certo mitigato il mio disgusto. Anzi…

  5. Claudio Castellari scrive:

    Non posso dare completamente torto al signor Patanè, ma credo che dovremmo, proprio noi residenti GAD, essere più ottimisti: uno storico esercizio come il Bar Fiorella è meglio che sia passato in mani “straniere” oppure che sia chiuso? Secondo me dovremmo essere noi per primi a fare qualcosa per rivitalizzare e riqualificare questa bellissima zona, tornando a frequentare i “nostri” luoghi, anche il Bar Fiorella, perchè no?

  6. Fabio Patanè scrive:

    Caro signor Castellari, pensi un po’ che invece io sono STANCO di questa retorica, relativamente recente in Italia, del “rimbocchiamoci le maniche”. Dovevamo rimboccarci le maniche dopo il terremoto, invece di PRETENDERE, per prima cosa, l’esistenza di uno Stato che provvedesse con i finanziamenti e la comprensione e le forze, necessari alla Ricostruzione? E cosa se non una Ricostruzione, se non fosse già troppo tardi, sarebbe necessaria oggi in Italia, e quindi anche a Ferrara, perché un esercizio regolarmente gestito non venga schiacciato dalle tasse e dalla concorrenza sleale, dalle mafie nostrane e straniere, e dal degrado che sta inghiottendo tutto? Io mi RIFIUTO di frequentare quella zona orrenda, se non necessario, perché mi fa male agli occhi e al cuore, e perché non è da anni “mia”. ANCHE sotto quei portici lo Stato è assente, e io preferisco un po’ di sollievo, quando esco per diletto.
    Senza offesa, e senza polemica, F.P.

  7. Claudio Castellari scrive:

    Caro signor Patanè, temo di essere stato frainteso, quindi meglio chiarire.
    1- Non ho mai detto né pensato che a “rimboccarci le maniche” dobbiamo essere noi cittadini: per questo deleghiamo già un sacco di gente (troppa!) profumatamente pagata…(ma qui il discorso si farebbe pesante).
    2-Credo (come lei) che noi dobbiamo effettivamente PRETENDERE che le istituzioni facciano ciò che sono tenute a fare.
    In quella zona che lei si rifiuta di frequentare io ci vivo da trent’anni, si figuri come fa male a me! Mi creda, la capisco perfettamente, ma credo che se vogliamo che quella “zona orrenda” torni ad essere quella che era, se vogliamo che il Rione Giardino non diventi uno squallido cortile invivibile qualcosa dobbiamo fare anche noi: dobbiamo resistere.
    Non resistenza passiva, beninteso, ma attiva verso quello Stato da sempre assente ingiustificato.
    Abbia pazienza, ma non credo che sia una valida alternativa scappare da quella “zona orrenda”: sarebbe una resa incondizionata, moralmente e civilmente inaccettabile.
    Cordialmente, C.C.

    • Fabio Patanè scrive:

      Caro Claudio, mi ha fatto piacere leggere la sua replica, di cui apprezzo il tenore. Il discorso è diventato troppo complesso e pesante, per potersi confrontare in questo frangente. Mi permetta solo di chiarire una cosa anch’io. Io credo in un’unica forma di Resistenza, che è parola per me bellissima, ed eternamente rilevante. Una Resistenza prima di tutto individuale, personale, e spirituale. Questa Resistenza passa quindi attraverso le scelte quotidiane, i gesti, le parole, i pensieri di ognuno di noi. Non SERVE intestardirsi a frequentare zone GIÀ perdute, perché troppo tardi, e perché in assenza di uno Stato sarebbe una pratica sterile ed inutilmente sgradevole, oltre che degradante. Resistenza è anche dire NO!, dire NO!, per esempio, alle iniziative offensive e ridicole del Popolo Rosé, che crede di combattere il degrado con gli eventi e la partecipazione dei cittadini. Resistenza è anche rifiutare quei luoghi che non sentiamo più come nostri, e scegliere quell’Italia che più amiamo, dove trascorrere le ore liete che ci sono ancora concesse. Quello che lei propone per me avrebbe senso in tutt’altra società, in tutt’altro Paese, in una Nazione degna di questo nome. Auguri sinceri.

    • Fabio Patanè scrive:

      P.S.: “Resistenza” è, tornando al Punto, ANCHE rifiutarsi – quando possibile – di comprare un espresso dall’ennesimo cinese che – chissà come – gestisce un bar ferrarese, anche perché spesso non parla una parola d’italiano, è abituato a lavorare per imitazione (vedi alla voce “contraffazione”), figurarsi se può sapere cosa c’è “dentro” quella tazzina. E ricordandosi che, dietro ogni ennesimo cinese che rileva un bar italiano, ci sono cinque connazionali che non ci riescono; e sapendo che un poveraccio come mio padre, gestore di un negozietto di prodotti locali, riceve una visita dei Nas ogni anno…

  8. Claudio Castellari scrive:

    Caro Fabio, e’ vero, il discorso è troppo complesso per un confronto in questa sede. Le assicuro che comprendo benissimo il suo punto di vista e le sue ragioni, ma continuo ad essere (o forse voglio essere) un po’ ottimista.
    Ringrazio e ricambio gli auguri, anche quello di riuscire, prima o poi, a ridimensionare il suo, comprensibile, pessimismo.
    Cordialmente, C.C.

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