di Massimiliano Colletti

A voler ripensare alla serata di mercoledì in Piazza Castello, c’è un momento che mi ha colpito in modo particolare. Non sono passati neanche 20 minuti dall’inizio della proiezione-concerto e io sto comodamente seduto con gli occhi fissi sul palco, così come i 1300 spettatori arrivati a Ferrara al termine della giornata e così come eccezionalmente pure i Mogwai: Stuart Braithwaite alla chitarra, Martin Bulloch alla batteria, Dominic Aitchison al basso, Barry Burns alle tastiere, anche loro seduti per non impallare il flusso delle immagini in formato 1:1 di Atomic: Living In Dread And Promise, il film diretto da Mark Cousins in occasione dei settant’anni delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

L’inizio, strizzando l’occhio a Koyaanisqatsi di Reggio/Glass, è tutto dedicato alla vita che nasce e che sboccia poi, arrivano le immagini dal Giappone. Forse è un Giappone visto da occhi occidentali: la formalità, un misto di umiltà e arroganza, un ciliegio e a seguire la prima bomba atomica su Hiroshima, quella che gli americani chiamavano in codice Little Boy.

Ripenso per un attimo a quello che ho visto.

Sulle schermo si susseguono esplosioni, un inquietante e spettacolare fungo atomico, il vento che spazza via alberi e macerie mentre sul palco c’è una band che ha costruito la propria ventennale fortuna sulla capacità di raccontare senza usare (quasi) mai un verbo, affidandosi esclusivamente alla forza evocativa degli strumenti, chitarre distorte su tutti e quelle dinamiche piano/forte che hanno fatto scuola.

Mi aspetto un muro di suono, mi aspetto dei volumi in grado di replicare la forza devastatrice di quelle detonazioni nucleari. Mi aspetto fischi, feedback, la pedaliera di Stuart Braithwaite pronta a saltare in aria. E invece, nel momento visivamente più spettacolare del film, i Mogwai scelgono (e sceglieranno ancora) il silenzio o qualcosa che al silenzio somiglia molto.

Five, four, three, two, one… un soldato americano è alle prese con il countdown prima dello sgancio della bomba; un bambino guarda il cielo sospettoso, in Giappone la vita continua normalmente. Poi l’orologio segna le 8.15, arriva Little Boy e i Mogwai esplodono in qualcosa che al silenzio somiglia molto. Il mondo da quel momento in poi non sarà più lo stesso.

Foto di Bruno Leggieri

DON’T BE AFRAID

Avevo già ascoltato Atomic prima di questa esecuzione dal vivo, con la stessa attenzione e desiderio di essere stupito che riservo ad ogni uscita discografica di un gruppo che amo almeno dal 1999 (dall’uscita di Come on die young, per intenderci alle cui spalle, avrei scoperto, si nascondeva sontuoso Young Team) ma che questa volta, ahimé, mi aveva lasciato dubbioso. Atomic su disco sembra suonato al di sotto degli standard della band, almeno questo è quello che pensavo fino a l’altra sera, quando è stato chiaro che quella musica è nata per camminare accanto a quelle immagini. Un matrimonio riuscito a tal punto che film e colonna sonora trovano senso e completamento reciproco soltanto insieme.

Mark Cousins, il regista di Belfast che ha ideato Atomic (già apprezzato per l’opera monstre The Story of Film: An Odyssey), si autodefinisce un figlio dell’era atomica e ha raccontato che sin da ragazzino ha avuto incubi riguardanti la bomba ma, allo stesso tempo, negli anni della scuola aveva sviluppato una passione per le fisica approfondita poi all’Università.

Ecco allora che gli incubi di Cousins si materializzano attraverso le parole del governo che invita la popolazione ad adottare tutte le misure precauzionali possibili per difendersi da un attacco potenziale: rinforzare le finestre con assi di legno, fare scorta di cibo in scatola e acqua, restare a casa. Se ci si trova all’aperto, una volta udite le sirene, mollare qualsiasi mezzo di locomozione e buttarsi a terra con le mani dietro la testa.

Mr President why did you drop the atom bomb? Chiede un bambino. La domanda rimane senza risposta, mentre le immagini, questa volta sottolineate con cassa e rullante ben marcati, portano lo spettatore avanti e indentro nel tempo, da una catastrofe nucleare all’altra, da Černobyl‘ a Fukushima, dal Nevada al Three Mile Island in Pennsylvania, dalle prove di forza tra Reagan e Gorbačëv al confine esplosivo tra India e Pakistan, passando per Laika e tutte le prime volte nello spazio. (Era Valentina Tereškova quella donna di cui si parla a un certo punto?).

Un manifestante arringa la folla dal palco: Si parla tanto di stile di vita americano, o di stile di vita inglese o di stile di vita russo. Qual è il punto se poi alla fine non c’è più nessuna vita?

Ora le immagini che abbiamo visto all’inizio scorrono al contrario, i fiori si chiudono, le cellule implodono. Altrettanto velocemente la vita scompare, arretra e si contamina.

Tuttavia, sembrerebbe suggerirci Mark Cousins (in una sequenza che dovrebbe rappresentare concettualmente il bright side, ma che la mia sensibilità ha fatto davvero fatica a percepire come tale) non è tutto da buttare. Ci sono ottime applicazioni scientifiche in grado di salvare o per lo meno di migliorare la vita delle persone, come i Raggi X o le Risonanze magnetiche, ed ecco allora il timpano di Tzar (penultima traccia nella trasposizione su CD della colonna sonora) sottolineare un futuro che per gli uomini può essere ancora positivo. I Mogwai spingono sull’acceleratore come sanno fare questa volta, sembra addirittura un po’ meno umido in Piazza Castello (anche se a me quelle immagini di uomini e donne pronti per intraprendere una tomografia assiale continuano a inquietare).

Il finale è di nuovo carico di tensioni. Siamo sulla superficie del sole dove continue esplosioni ci ricordano che anche sulla terra potrebbe saltare tutto da un momento all’altro (da questa sequenza di immagini nasce la copertina dell’album). Allo stato attuale ci sono ancora in giro 15.700 testate nucleari mentre si stima che nei prossimi dieci anni la spesa per il nucleare sarà di un trilione di dollari.

L’ultimo brano in scaletta si chiama Fat Man, nome in codice dell’altra bomba atomica sganciata in Giappone a Nagasaki.

I Mogwai, come è giusto che sia in una serata dove tutto trova la propria esatta collocazione, non concedono bis, mentre i titoli di coda imprimono la parola FINE su un’altra ottima edizione di Ferrara Sotto le Stelle.

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