di Nicola Ravera Rafele

Spostarmi in giro per l’Italia per vedere concerti è una forma di turismo che ho sempre praticato. Spesso ho deciso in modo deliberato di ascoltare altrove gruppi che avrei trovato pochi giorni dopo a Roma. Quando vai a un concerto nella città dove vivi hai la sensazione di caderci dentro per caso, spesso ancora distratto dai problemi della giornata, con la testa altrove. Partire, impiegare del tempo per raggiungere un luogo diverso, aspettare, mi allontana dal quotidiano. Mi costringe alla costruzione di una attesa. Per questo ho accettato immediatamente l’invito di un amico che mi proponeva di andare a Ferrara per vedere Wilco e Kurt Vile in Piazza Castello, nonostante Wilco avrei potuto vederli comodamente a Roma il giorno seguente.

Mi incuriosiva Ferrara, dove non ero mai stato, e che era diventata nel corso del tempo una specie di terra promessa. Ogni estate il cartellone musicale mi faceva immancabilmente dire che quell’anno ci sarei andato, ogni autunno progettavo una gita al Festival di Internazionale che poi si rivelava impossibile. A Roma poi, quando si parla di Ferrara, le persone alzano gli occhi al cielo, allargano le labbra in una espressione incredula e vagamente sprezzante:

“Davvero non ci sei stato? E’ bellissima. Ci sono un sacco di biciclette.”
Quella espressione era tutto ciò che sapevo di Ferrara.

(La storie delle biciclette è diversa: a Roma nutriamo un rispetto che confina con l’invidia verso qualsiasi segno di civiltà a noi precluso. L’idea che ci siano delle biciclette ci pare esotico e incredibilmente eccitante)

Avrei potuto semplicemente andarci, a Ferrara, ma scoprire una città con la scusa di un concerto ti allontana dall’ovvietà del turismo. Nel poco tempo a disposizione non ti puoi permettere l’ambizione onnivora del viaggiatore organizzato, quello che vuole vedere tutto e sapere tutto, che colleziona date di battaglie e nomi di strade, che impara a memoria la vita di architetti e urbanisti, quello che fotografa tutte le targhe che decorano i palazzi (e a Ferrara ce ne sono parecchie…).
Quando si viaggia con una scusa ci si obbliga al dettaglio, si cercano cortocircuiti improvvisi, epifanie.
Costruirsi una immagine interiore di un luogo in un paio d’ore è prima di tutto un esercizio: accettare la flanerie come forma di conoscenza. Le città le capisci quando cammini senza meta, chiudendo le mappe e le applicazioni dell’I-Phone, oggi ancora più invadenti delle vecchie guide.

Nel pomeriggio di un giorno d’estate Ferrara ti fa sentire un alieno arrivato in una terra misteriosa. Per la strada non c’è quasi nessuno, il silenzio sottolinea ogni passo che fai su quella strana pavimentazione di pietre sconnesse. I pochi che passano sono in bicicletta, non fanno rumore, e mentre cammino con lo sguardo per aria rischio continuamente di essere travolto.

Sembra una città da scartare con cura, lentamente, lasciandosi andare allo strano ritmo dei vicoli e delle piazze: un sistema anarchico di vuoti e di pieni, spazi che si aprono dove non te li aspetti, strade minuscole che cadono in altre ancora più piccole, e portici e volte, ponti sospesi e giardini segreti.

Mi viene voglia di immaginarla di inverno, avvolta in una specie di mistero nebbioso. Chissà se è così. Cerco tracce di Antonioni. M’incanto davanti a un portone chiedendomi se è qui che correva Monica Vitti poco prima del finale di Deserto Rosso, me lo chiedo anche se so che non è vero, che Deserto Rosso è girato a Ravenna, ma importa davvero? Potrebbe essere qui, e Antonioni fa parte di una Ferrara della mente, anche se in fin dei conti ha ambientato quasi sempre i suoi film altrove. Ma no, non importa. Qualcosa dei colori, qualcosa delle luci e delle ombre,  qualcosa nell’anima sfuggente di questa città lo fa evoca in ogni caso.

All’ora dell’aperitivo le strade si animano all’improvviso. I bar si riempiono, le voci si alzano, il silenzio del pomeriggio si scioglie. Passeggio lungo un viale lastricato che immagino essere quello centrale: qui la città si specchia in una perfezione architettonica assoluta. Sembra il salotto di una case di bambole: nessun oggetto fuori posto, i dehors dei cafè perfettamente intonati alla  grazia dei palazzi arancio e ocra. Mi spiegano che dovrei visitare il Duomo, ma è chiuso per lavori. Tiro un sospiro di sollievo: non ho voglia di lasciare la strada.

Prendiamo un lungo aperitivo a base di sguazzo (un’altra delle cose che porterò con me indietro da Ferrara…), quando arriviamo a Piazza Castello per il concerto il tramonto è appena cominciato.

Foto di Nicola Jannucci

Kurt Vile arriva sul palco accompagnato dai suoi Violators vestito in jeans e camicia chiara, portandosi dietro una infinita quantità di capelli che spesso, durante il live, gli faranno sparire la faccia. In effetti tutta la sua esibizione è sul confine tra ciò che mostra e quello che non si vede.

Ex War on Drugs arrivato al sesto album solista in continua crescita, Kurt è uno di quelli che ispirano all’ascoltatore Indie una simpatia istintiva. Sarà quell’aria da ragazzino che strimpella la chitarra nella sua cameretta di adolescente, sarà per quel suono scuro, sempre un po troppo denso, o per la voce bassa e sorniona.

Lo avevo visto al Primavera Sound di Barcellona un paio d’anni fa, e avevo ricavato la sensazione che non avesse ancora trovato il modo per gestire l’ampiezza di un palco rock. Mi dicono che in una intervista ha dichiarato che sta lavorando per cambiare il suo approccio dal vivo, e questa auto-consapevolezza fa aumentare ancora la simpatia che provo per lui.

In effetti mi sembra cresciuto, il concerto scorre piacevolmente, i Violators sono avvolgenti e puntuali mentre Kurt sembra divertirsi moltissimo con la chitarra. Rimane però qualcosa che è ancora fuori fuoco. E’ esattamente quel problema su “ciò che non si vede”: parecchi pezzi non crescono rispetto al disco, non trovano una dinamica chiara, e finiscono per schiacciarsi uno contro l’altro in un flusso troppo compatto. Noto che il pubblico perde facilmente la concentrazione, penso che per la seconda volta lo sto sentendo suonare con la luce del sole, e Kurt Vile è animale notturno. Mi prometto di trovare una data in un locale, al chiuso, dopo le undici di sera per rivederlo.

Dopo un’ora esatta, un bel finale (con splendida versione di Pretty Pimpin e Freak Train) e il cielo finalmente nero ci portano in dote i Wilco.

Basta la intro dell’ultimo disco (Ekg, mentre salgono sul palco) seguita da More… e Random Name Generator (sempre da Star Wars) per capire che Jeff Tweedy e gli altri sono in gran forma. Il suono è di una compattezza granitica, e così anche le canzoni di questo nuovo disco (che sentite nello stereo apparivano dimenticabili) sembrano subito strordinarie.

Si sa, a fare grande una band è la capacità di far crescere le composizioni quando sono suonate dal vivo. Mi pare chiaro da subito che stiamo parlando di uno dei migliori gruppi del mondo, uno di quelli che ascolteresti per ore anche senza conoscere le canzoni, soltanto per godere della perfezione della musica. Ogni accordo è limpido, perfettamente intelliggibile anche quando gli strumenti sono al massimo, le voci e i suoni si incastrano con naturalezza.

La sensazione è confermata quando i Wilco calano gli assi del loro repertorio infinito. Da Yankee Hotel Foxtrot pescano I’m trying to break your Heart, Jesus, Etc. (cantata in coro da tutta la piazza), War on war (in versione acustica durante i bis), Heavy Metal Drummer (uno dei punti più altri dell’intero concerto), I’m the man who loves you.

E poi in ordine sparso Hummingbird, Via Chicago, Spiders, Box full of letters, fino alla chiusura del set con Impossible Germany e The late Greats.

Si divertono a entrare e uscire dalle linee melodiche, sporcano appena il suono, si perdono nelle lunghe code dei pezzi che sono splendidi esercizi di rigore di gruppo. Mai una nota fuori posto. Mai uno strumento che mette in ombra gli altri.

L’ultima sorpresa sono i bis, tutti in acustico. La voce di Jeff Tweedy perfetta che quasi sussurra la melodia di Misunderstood, e poi in serie It’s just that simple, War on War, I’m always in love, California Stars e apoteosi finale con A shot in the arm con il suo potere ipnotico.

Capisco di amare veramente un gruppo quando vado via da un concerto sinceramente arrabbiato. Perché è finito, perché c’erano almeno altre cinque canzoni che volevo ascoltare (Kamera, Radio Cure, dove siete?), perché non sento la stanchezza. Questo è uno di quei casi. Sarei rimasto a oltranza, ma è giusto così. I Wilco hanno suonato due ore, e io devo ancora scoprire Ferrara di notte…

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