Avete presente quando le cose succedono e basta? Quando fino ad un secondo prima tutto era normale e poi, d’improvviso, le cose sono cambiate e non torneranno mai più come prima? Come reagite quando sapete che non potete fare niente, che la situazione è semplicemente irreversibile, che in un secondo è cambiato tutto, senza che voi possiate dire nulla? Credetemi, ne so qualcosa e domenica ho capito che è così un po’ per tutti. Ma partiamo dal principio.

Ormai dieci giorni fa stavo parlando con la regista e attrice Roberta Pazi davanti ad una pizza e ad una birra troppo grande di quello che è un mio chiodo fisso da sempre: fare foto a delle prove teatrali. Gli attori non sono in costume, non c’è il pubblico, ci si può avvicinare e muoversi per il palco. Insomma, è perfetto per scattare. Vedo Roberta scoppiare in un sorriso largo e sincero, gli occhi le si stringono dietro a quei suoi occhiali sottili dalla montatura rossa e mi dice “Vieni la settimana prossima, ho giusto un laboratorio che fa al caso tuo!”. Accetto entusiasta.

Martedì scorso vado, ho il mio ritardo cronico, il mio treppiedi, la reflex carica. Tutto stupendo. Entro. Mi ritrovo davanti ad una decina di ragazzi, in buona parte nigeriani, un ragazzo pakistano e due ragazze che hanno seguito i corsi di recitazione di Ferrara Off. Stanno tutti ballando.

Roberta mi spiega velocemente che sono un gruppo di ragazzi richiedenti asilo e rifugiati provenienti da diverse realtà di accoglienza attive sul territorio locale, che hanno tutti accettato la proposta sorta grazie alla collaborazione tra la Cooperativa sociale Camelot e il Teatro Ferrara Off in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato che si è tenuta come ogni anno il 20 giugno.

Finita la frase Roberta torna a ballare.

Foto di Giulia Paratelli

Comincio ad ambientarmi, a scattare qualche foto e capisco ben presto che gli esercizi teatrali che vengono loro proposti dopo il “riscaldamento danzereccio” sono qualcosa di molto serio per loro. Gli viene chiesto di immaginare che al di là della porta bianca ci sia l’ufficiale, la persona che deve decidere del loro futuro, loro diventano improvvisamente seri, diventano improvvisamente attori. Inaspettatamente. C’è chi tira fuori il cellulare per fare il video dell’amico che recita per poi mandarlo alla sorella a Nairobi, c’è chi esce dalla “porta bianca” con aria affranta come Umar e c’è chi non riesce a trattenere la gioia come Marvelous. Come mai proprio quel nome? Perché “meraviglioso”? Glielo chiedo e lui improvvisamente si fa timido, vedo dal suo sguardo che è parecchio più giovane di me e mi dice quasi sottovoce “e pensa che mia mamma mi chiama Sunshine…” non posso non sorridere davanti a tanta spontaneità.

Il tempo passa, gli esercizi si susseguono e improvvisamente sono loro stessi a diventare i questori che devono decidere della sorti dell’amico, si passano questi finti passaporti di mano in mano, fingendosi, dubbiosi, facendo mille domande, imitando traduttori troppo bravi a far loro domande e troppo poco interessati a tradurre davvero bene le loro parole. La mancanza di comunicazione, questo passa.

Ciò che scopro è la loro voglia di essere ascoltati, le loro storie fanno male al cuore, parlano di mesi passati in Libia a lavorare come manovali per avere i soldi per pagare gli scafisti, parlano di botte, di amici ammazzati a sangue freddo perché avevano chiesto di essere pagati per il lavoro fatto. Parlano di Boko Haram che assalta d’improvviso le loro città e spazza via tutto, parlano di un libico che imbraccia una motosega, furioso per le loro richieste di essere pagati dopo settimane di lavoro, la cicatrice è lì, sul braccio, e sulla schiena se ne susseguono una catena infinita.

Come fanno? Come dormono dopo tutto ciò che hanno visto? Dopo tutto ciò che hanno passato? La lezione sta per giungere al termine, la mia reflex si fa improvvisamente pesante per il mio braccio e ben presto mi rendo conto di aver scattato più di duecento foto. Roberta chiede loro di sedersi per terra, dà loro un foglio bianco e dice loro di scrivere su un lato le cose che più amano, sull’altro ciò che più odiano. Loro scrivono o chiedono di farsi aiutare, si fanno capire anche quando noi proprio quel termine in inglese non lo conosciamo.

Poi vanno, mentre io e Roberta restiamo sole, con i loro fogli.

“Amo stare con le persone a cui voglio bene”
“Amo condividere la gioia”
“Amo la mia famiglia, il mio paese e le sue città”
“Amo l’elettricità, vorrei diventare elettricista.”
“Amo avere un lavoro in un vero posto di lavoro”

“Non amo la rabbia, avere paura”
“Non amo chi mi prende in giro”
“Non amo la guerra”
“Non amo chi non rispetta gli altri”

C’è talmente tanta semplicità che mi viene la pelle d’oca. I giorni passano e arriva domenica, il giorno dello spettacolo aperto al pubblico. Vado, ho il mio ritardo cronico, il mio treppiedi, la reflex carica. Tutto stupendo. Entro. Il piccolo teatro è pieno, le sedie vengono addirittura aggiunte ai lati del palco di quel “teatro all’incontrario” dove il palco è in basso e gli spettatori in altro, come un piccolo teatro romano. Lo noto subito: si sono vestiti di tutto punto. Scarpe lucidate per l’occasione, camicie stirate, c’è chi addirittura ha messo la cravatta.

Foto di Giulia Paratelli

Lo spettacolo prosegue tra un finto muezzin che racconta una fiaba ambientata nel deserto, una cantante lirica e loro che nelle finestre di dialogo raccontano qualcosa di se stessi, ringraziano per l’aiuto ricevuto, ricordano la loro storia, ci omaggiano con una canzone gospel.
Lo spettacolo finisce, il pubblico applaude scosso da quelle vicende e se ne va. Io resto, devo finire di fare delle foto, salutare amici dell’organizzazione. Senza che me ne accorga mi ritrovo a fare selfie tra un abbraccio, una faccia stupida, una V di vittoria fatta con le dita e mi sento con loro. Roberta piange, non vuole che finisca. Silvia, Ariele e Marcello stanno lasciando il contatto Facebook a tutti.

Io faccio un passo indietro, sento l’erba alta sfiorarmi i polpacci, guardo la scena da lontano. Sorrido, è uno di quei sorrisi amari di quando sai che forse ci si incrocerà ma che forse non ci si vedrà mai più. So che Issa non avrà più un alloggio la prossima settimana e non sa ancora dove andare, so che Marvelous sorride sempre ma invece è estremamente timido, che Umar approfitta del Ramadan perché vuole perdere peso, che KesKes è molto legato alla sorella rimasta in Nigeria e parla poco con gli altri. Penso a come le loro vite, tutte molto differenti, siano cambiate d’improvviso, in un secondo e a come non possano più tornare come prima. Penso a come troppo spesso sia bizzarro, cattivo, buono, acido, dolce il destino.

Penso a come avrei reagito io se fosse successo a me, qui, a Ferrara. Il sorriso piano piano si fa sempre più amaro. La cena quella sera sa di pensieri, il sonno non mi riposa, il lunedì mattina è terribile. Non riesco a non farmi questa domanda:
…e adesso?

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