La serata è appiccicosa.

Mentre cammino per via Mazzini sperando che questo odore di sudore non venga da me, penso al fatto che c’è qualcosa di strano nell’andare ad un concerto coi nomi di spicco della musica elettronica contemporanea e passare sotto la statua di Savonarola, che ricordiamocelo, è stato arrostito tra le altre cose per aver “detto cose nuove”, cosa che in senso lato viene fatto puntualmente anche a chi l’elettronica la fa, da parte di chi la ama e chi la disprezza, allo stesso modo.

Mi sono persa Populous (fatevi un favore e sparatevi subito “End for sure”) e Jolly Mare, le due eccellenze italiane a cui è stata affidata l’apertura di ASTRO, ma sono sicura che il pubblico fosse in ottime mani.

Arrivo giusto per l’inizio di Floating Points, che si presenta in assetto quintetto per un live onestamente stupefacente. Premetto che non ho lo avevo mai sentito. I pezzi si presentano sotto forma di suoni sintetici ma hanno un’impronta decisamente psichedelica; il gigantesco cerchio alle spalle della band proietta visuals geometrici che come al solito dopo 10 minuti, mescolati all’entusiasmo per quello che sto sentendo, mi danno l’effetto droga (mi si incrociano occhi e neuroni, mi vengono le gambe molli, cose così). Ho scoperto a posteriori che Sam Shepherd (che è Floating points) oltre ad essere musicista è anche un neuroscienziato. Un neuroscienziato. Non so perché ma in qualche modo immaginavo fosse uno dall’intelligenza scientifica: l’unione così ben studiata di suono e immagine dà proprio l’idea di voler stimolare le sinapsi, toccare un livello più inconscio ed emozionale utilizzando però mezzi che di umanistico hanno ben poco. Detto ciò, il suo ultimo album “Elaenia” (del 2015) è un gioiellino, uno strano incrocio tra ambient, dance, la già nominata psichedelia e richiami jazz. Consigliatissimo.

Foto di Eugenio Ciccone

Ci spostiamo all’interno del giardino del Castello per il live set dei canadesi Junior Boys: un calderone di suoni estremamente 80s, dream pop e tribalismi molto moooooolto soft (tipo un copriletto leopardato), il tutto accompagnato dalla voce sottile e sognante del cantante e chitarrista Jeremy Greenspan. La gente balla, io non sono proprio entusiasta ma ascoltare questo gruppo e guardare la reazione del pubblico mi fa pensare a questa cosa del ‘beccare il beat giusto’: sia un suono analogico o un suono sintetico, il ‘beat giusto’ raduna tutti sotto cassa, non importa cosa ascolti di solito. Lo senti subito se è quello giusto. Quindi balli. È tutto molto lineare. Probabilmente il beat tocca qualcosa di ancestrale, in fondo veniamo tutti da lì, dal suono monolitico della percussione, pesante e greve come il martello. Secondo me comunque se volete limonare forte ad una festa con una tipa con la riga in mezzo, il cappello a tesa larga e l’occhiale da sole tondo/uno che c’ha i risvoltini, il pantalone loose e quel capello che fa tanto soldato WWII, i Junior Boys vanno benone. Io vi ho avvertiti.

E poi ad un certo punto, Caribou. E ho ballato. Sì ragazzi, nonostante i miei chiari problemi di coordinazione arti superiori/inferiori, ho ballato. I quattro di bianco vestiti,come la purezza delle composizioni del deus ex machina Dan Snaith, fanno partire un set che, come già era chiaro a tutti prima di entrare, è stato il migliore della serata. Mi sarebbe piaciuto intervistare Snaith, che appare come un uomo sorridente e sereno, non alterato nemmeno durante l’incidente tecnico appena dopo il primo pezzo. Lo sapevate che Snaith si è beccato un dottorato in matematica per un lavoro su una cosa che si chiama Siegel modular form (che non vi spiego perché non ne sono in grado, io ho fatto il Liceo Artistico)? Essendo la composizione di musica elettronica in parte una questione di numeri, si spiega la tendenza di menti scientifiche a produrre capolavori in questo ambito. Non a caso anche Delia Derbyshire studiava matematica prima di mollare per la musica e diventare pioniera di questo genere.

Tornando a Caribou, quello che apprezzo moltissimo di lui è che fa musica altamente digeribile da tutti (ritmi catchy, melodie orecchiabilissime e anche quei famosi beat di cui parlavo prima), ma nella quale riesci a percepire la complessità del mondo di questo musicista. Per me è uno che ha capito tutto. O comunque quasi tutto. “Our love” è proprio un disco bello e la resa dal vivo è altrettanto soddisfacente: folla in visibilio per “Can’t do without you”, comprensibilissimo, un po’ meno comprensibile perdersi più della metà del concerto per farsi selfie dando le spalle al palco. Dai raga, a parte che vi state perdendo una cosa fighissima, avete pure pagato.

Foto di Eugenio Ciccone

Mentre danzavo, invece che impegnarmi nel modulare i movimenti braccia/gambe, mi sono un po’ messa a pensare al fatto che molti di quelli che ora stanno ballando non si accomunerebbero mai ad un ascoltatore medio della radio m2o, che probabilmente qui in mezzo ci sono quelli che dicono che la techno fa schifo ma Aphex Twin va bene e che non sono in grado di scindere quelli che sono qui perché “è così figo dire di esserci stati” da quelli che ci volevano essere. E voi direte: “Ma che te frega a te, spocchiosella?!”. Niente era così per fare conversazione, scusate.

Comunque così ho smorzato per l’ennesima volta il mio entusiasmo cadendo nell’esistenzialismo musicale, quindi me ne vado sul djset di Four Tet, che accompagnerà i deliri alcolici di tutte le tipologie di danzatori che ho visto stasera e da cui (purtroppo) non ho imparato niente neanche questa volta.

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