In India ci passai un mese qualche anno fa. Tornata a Ferrara la domanda di tutti era sempre quella: allora, com’è? Non avevo una risposta, ma il punto interrogativo non si poteva eludere. Così balbettavo che sì, è bella, bellissima. Non ci credevo ma passavo oltre. Per essere sincera avrei dovuto problematizzare. Innanzitutto: l’India è il settimo Paese per estensione geografica al mondo, comprende un’area di oltre tre milioni di chilometri quadrati. Come faccio a sapere com’è l’India? In un mese avrò attraversato sì e no quattro provincie, ed erano pure quelle meno famose. Non ho visto il Gange, non ho visto il Taj Mahal, non ho visto il Rajastan, non sono nemmeno stata a Calcutta. E se anche dovessi esprimermi esclusivamente sui territori che ho avuto modo di visitare… come si può spiegare a chi non c’è mai stato che le categorie di bello e di brutto non valgono più? Si fa presto a dire Firenze è bella, Barletta è brutta. Ma in quel mese di autobus scassati ho visto neonati addormentati sui marciapiedi e le colline disegnate dalla geometria degli arbusti di the. Ultimamente a chi mi chiede ancora com’è, talvolta succede, rispondo che è difficile.

È difficile starci, è difficile orientarsi, è difficile capire come si sta e cosa si pensa, cosa si prova. Per questo mi è piaciuto incontrare Nicola: perché con lui non c’è stato bisogno di ripetere che “hey, è un maledetto grandissimo continente!”, non c’è stato bisogno di minimizzare, ridurre, sillabare. La complessità era un dato assimilato: non c’è stato bisogno di rispondere ad alcuna domanda, la discussione cominciava per entrambi dall’assunto che risposte non ce ne sono.

Nicola Tenani è un ferrarese, classe 1968, che il subcontinente indiano l’ha girato in lungo e in largo. L’ultimo suo viaggio è stato molto più di un viaggio: si è preso un anno di aspettativa dal lavoro e ha deciso di trascorrerlo in Kerala, regione a sud di Mumbai, sulla costa ovest, la stessa regione di pescatori e braccianti dove, nel 2012, vennero fermati per sospetto omicidio i marò Latorre e Girone. Nicola stava nell’entroterra, la sua base era Kolakadu, un piccolo villaggio di contadini a trenta chilometri da Trivandrum, la città principale. Assieme alla moglie ha lavorato come volontario per un’associazione che si occupa di aiutare vedove e bambini senza famiglia. Adesso è tornato in Emilia-Romagna, vive a Bologna, ma si sta organizzando per tornare, biglietto di sola andata.

Courtesy Nicola Tenani

L’ho incontrato per parlare del suo primo libro “Le fate del Travancore”, pubblicato da Edizioni dell’Eremo. Una raccolta di tre storie verosimili ma inventate, che raccontano la vita di altrettante donne verosimili ma inventate. Profili femminili disegnati sulle voci e i volti incontrati in un anno di confronto quotidiano.

«Negli ultimi anni quando i media rivolgono la loro attenzione alle donne indiane è solo per raccontare episodi di abusi e violenze, in cui inevitabilmente si pone l’accento sulla debolezza della loro condizione. Con questo libro ho voluto raccontare queste figure da un’altra prospettiva, mettere in luce la loro forza incredibile. L’Europa conosce l’ambientalista Vandana Shiva, la scrittrice Arundhati Roy, che ha denunciato la devastazione causata dalla diga di Narmada, ma ci sono tanti altri esempi meno noti. Nel distretto del Palaghat, sempre in Kerala, le donne della tribù di Plachimada hanno protestato per oltre un anno contro gli stabilimenti della Pepsi e della Coca Cola, che inquinando e prosciugando le falde obbligavano la comunità a camminare sempre più lontano per reperire l’acqua potabile. Sono riuscite ad ottenere giustizia e a far valere in tribunale i loro diritti. E poi ci sono le donne che non finiranno mai sui giornali, la cui forza grandissima si rivela nella vita di tutti i giorni, nella capacità di farsi carico e superare le sfide e le avversità».

Protagoniste dei suoi tre racconti sono una vedova dalit, una fuori casta, distrutta dalla perdita della casa e dalla morte nei campi dell’unico figlio, un’adolescente che si mette alla prova in un importante concorso di danze tradizionali, una giovane moglie che prova a riscattare il marito dal vortice dell’alcolismo in cui era caduto a causa della mancanza di lavoro. «Ho cercato in queste vicende di mantenere l’aspetto fiabesco che ancora sopravvive in quei luoghi, lo stesso raccontato da Rudyard Kipling e Emilio Salgari. Per certi versi il vero protagonista della prima storia è il topolino che esce dalla tana e osserva cantare la vedova, è lui che permette alla trama di cambiare verso, ed è la cavalcatura di Ganesha, il dio elefante».

Il volume è il primo di una trilogia. Il testo del secondo è già stato consegnato all’editore. Il terzo ancora non è stato scritto, perché Nicola sta aspettando di tornare in Kerala per vivere e scrivere nuove storie. Vorrebbe partecipare a un matrimonio tradizionale e trasportarlo nelle pagine: «mi affascina la sensualità di questa cerimonia, il fatto che si prepari attraverso momenti vissuti collettivamente. L’incontro delle famiglie, la visita, la consultazione del quadro astrale, la verifica della casta, il bacio della futura moglie ai piedi della suocera. Mi interessa raccontare le persone semplici, la poesia dei gesti più normali. Penso per esempio al rito della cavigliera, che ho descritto nella seconda storia, quella dedicata a Sajitha, la ragazzina che si prepara al concorso di danza».

La sua ricerca segue due binari paralleli, le voci raccolte si abbinano alle immagini fotografate. «Non sopporto chi va a Varanasi per fotografare le pire dei defunti, non lo reggo. Quella è una città dove la gente va per morire, non per finire su Flickr o su Facebook. L’India che mi piace fotografare è contemporanea e solitaria, soprattutto è naturalistica. Nel tempo libero mi perdevo nelle foreste e nelle piantagioni, sotto le foglie dei banani passavo le ore per aspettare le volpi volanti o i picchi giavanesi. Quello era il mio yoga, aspettare, rallentare il respiro e anche i pensieri».

L’incontro con Nicola ha compreso innumerevoli divagazioni. Si è parlato della postura elegantissima degli uomini in dothi, dell’approccio occidentale alla meditazione, della necessità di non confondere l’accettazione del karma con la devozione pura, della tanto chiacchierata Auroville, «dove l’atmosfera è bellissima e decadente e si può trovare veramente di tutto, dalle cose serie allo yoga della banana. È la capitale della new age ma allo stesso tempo è un posto pieno di stress. Se non hai soldi messi da parte o rendite viverci è difficilissimo».

Inevitabile finire su Tiziano Terzani: «lui è uno dei pochi che ha saputo raccontare l’India, che lì ha vissuto delle esperienze importanti senza farsi troppo scottare, e senza diventare un invasato, come quelli che hanno mollato tutto per seguire Osho o Sai Baba».

E allora, com’è l’India? Chiedetelo a Tiziano.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.