Testo, video e foto di Umberto Guerra

Parto il 3 luglio 2015 da Trieste, con l’obbiettivo di raggiungere Atene, zaino in spalla, tenda e sacco a pelo. Il piano è semplice: camminare tra le 6-8 ore al giorno, mangiare quello che trovo, e dormire in campeggi, ostelli e spiagge.
Ho intenzione di costeggiare il mare, con l’eccezione dell’Istria, che salto a piè pari, e di alcuni tratti in Albania. Nei mesi precedenti mi sono allenato con metodo. Ho perso peso e praticato regolarmente attività aerobica ed esercizi a corpo libero.

Ho programmato il programmabile e infine sono partito. Eppure, dopo pochi giorni mi rendo conto che durante la mia preparazione ho fatto un errore madornale: non ho tenuto conto dello zaino. Non è particolarmente pesante, 14 chili, eppure sono martoriato da un dolore costante che si dipana della base del collo alle spalle. Il male si presenta dopo pochi minuti che indosso lo zaino e cresce senza tregua. Al mattino riesco a reggere tre quarti d’ora di fila senza pause ma a fine giornata ogni 10 minuti sono costretto a fermarmi. Dopo 4 giorni raggiungo Fiume. Le mie aspettative erano di tenere una media di 30 chilometri al giorno. Tuttavia, a causa del problema con lo zaino, di norma non supero i 18-20. I piedi si riempiono di vesciche. Ma, anche se dolorose, mi sembrano un problema secondario.

Foto di Umberto Guerra

Passano tre settimane e percorro 500 chilometri. Incontro luoghi, persone, prendo dimestichezza con la mia routine, imparo a contrattare sui prezzi, inizio a perdere peso ed a abbronzarmi. Il male però non se n’è andato. E io ritengo di aver raggiunto il mio personale limite di sopportazione. Decido quindi di procurarmi un carretto (ho visto, in passato, altri camminatori fare la stessa cosa). Ma non ne trovo. A Spalato però trovo un piccolo carrellino, di quelli usati dai facchini per scaricare i pesi. Mi sembra di volare. Il male svanisce, le vesciche guariscono e con mio grande piacere posso camminare a petto nudo. Sembra troppo bello per essere vero; e infatti non dura. Dopo 70 chilometri le ruote si sfasciano. Continuo lo stesso a portarmelo dietro. Per altri 50 chilometri cerco delle ruote di ricambio ma non ne trovo. Nelle ferramenta i commessi alzano tutti le spalle. Ad Opuzen non so più dove sbattere la testa. Di tornare a camminare con lo zaino in spalla non se ne parla.
Infine, disperato, decido di comprare una carriola. E’ l’unico mezzo disponibile che più si avvicina alle mie esigenze. All’inizio mi sento ridicolo a girare con quel mezzo, ma nel giro di poco tempo mi rendo conto che è rivoluzionario. Cambio innanzitutto la ruota, mettendone una più resistente. E cammino tenendo i manici leggermente più in alto in una posizione che scarica la maggior parte del peso sulla carriola. Camminare ora mi costa pochissima fatica (se non in salite e discese ripide).

Riprendo a volare. In una tappa arrivo a percorrere 44 chilometri. Mi sento sicuro di me, forse troppo e abbasso la guardia. Non sto attento come dovrei all’alimentazione; mangio schifezze confezionate e dormo poco, non più di 6 ore a notte. Il 10 agosto, sono in Montenegro, poco prima del confine con l’Albania. Sto camminando tranquillo, in una strada deserta, quando all’improvviso sento salirmi il mal di testa. Neanche 5 minuti e sono costretto a fermarmi. Scarico il bagaglio e mi siedo sulla carriola. Non sono in grado di stare in piedi. Ho mal di testa, nausea e un estremo senso di debolezza. Mi rendo conto di essere solo, in una strada montenegrina poco trafficata, seduto su una carriola e in condizioni di semi immobilità. Per quel che ne so la mia vita potrebbe ingloriosamente finire quel giorno.

Dopo due ore, trovo la forza di alzarmi, e per prima cosa constato sollevato che non sono morto. Torno indietro di 2 chilometri a un villaggio appena superato, Vladimir. Qui trovo una camera e mi distendo a letto. Alla sera sono scosso da febbre e vomito. La mattina dopo sto già meglio ma mi prendo comunque un giorno di riposo. E decido di rimettermi a stecchetto per quanto riguarda alimentazione e ore di sonno.

Foto di Umberto Guerra

Viaggiare con una carriola è un’arma a doppio taglio. Nei giorni in cui sono di buonumore apprezzo il lato comico della faccenda. E sono il primo a ridere di me stesso. Inoltre attira parecchio l’attenzione e quando mi fermo, nei bar, solitamente c’è sempre qualcuno che mi offre qualcosa. Ma nei giorni in cui sono più nervoso l’attenzione che suscito mi irrita profondamente. Mi sento come un pesce in un acquario. Se posso evito le zone trafficate ma quando vedo qualcuno che mi fissa vorrei andargli vicino e chiedergli, non troppo gentilmente, cosa abbia da guardare.

Arrivo in Albania e l’impatto è molto duro. Vedo molto degrado e povertà. Appena superata la dogana mi imbatto in una folla di mendicanti asserragliata intorno alle macchine in fila. Sono insistenti. Mi allontano e poco dopo vedo due bambine venirmi incontro con delle bottiglie d’acqua. Probabilmente le stanno portando agli adulti impegnati nella questua. Mi salutano, e sorridono felici. Per loro è tutto un gioco. I rifiuti poi sono esagerati. Le strade in Croazia sono tutt’altro che pulite. E anche in Montenegro non si scherza. Ma qui i mucchi di pattume sono oltre ogni limite. E quel che è peggio è quell’odore acre, che mi perseguita mentre cammino, mi invade e mi disgusta.

I giorni seguenti mi inoltro nell’interno, e incontro una parte dell’Albania in cui mi trovo a mio agio. Piccoli paesi. La gente è la più ospitale che abbia incontrato dall’inizio del viaggio. Ci sono due giorni in cui praticamente non riesco a spendere soldi. Mi viene offerto il pranzo; poi mi fermo in un bar per chiedere informazioni e la titolare mi manda via con un sacchetto di vivande (sarà per l’aspetto emaciato che comincio ad assumere). Un signore mi da indicazioni per arrivare ad un monastero (S. Antonio, a Laç) e prima di salutarmi mi lascia con dell’altro cibo. Al monastero il monaco mi assegna una bellissima cella nella quale passare la notte. E la mattina successiva, naturalmente, mi offre da mangiare. Proseguendo verso sud mi rendo conto che le possibilità di arrivare ad Atene in tempo si stanno assottigliando. Ho un aereo da Istanbul il 15 settembre (per la Nuova Zelanda, dove starò un anno). Quindi dovrei essere nella capitale greca almeno 3-4 giorni prima, per poi prendere un autobus.

All’altezza di Fier sono costretto a imboccare l’autostrada per alcune decine di chilometri. Non ci sono altre vie. Alcuni abitanti del luogo mi assicurano che la polizia se ne infischierà. E infatti non ho problemi. Di solito il ciglio prevede uno o due metri di sterrato, quindi sono relativamente al sicuro. Mentre cammino mi capita spesso di soffermare la mia mente su pensieri che mi fanno ridere, magari persone eccentriche che ho incontrato o situazioni bizzarre nelle quali mi sono trovato. La conseguenza è che mi si stampa in faccia un bel sorriso a 32 denti. Posso solo immaginare cosa pensino quegli automobilisti albanesi che mentre guidano tranquilli, in autostrada, si vedono arrivare incontro un tizio a piedi, con una carriola, che viaggia controsenso (quando si cammina si tiene la sinistra così da evitare che le macchine ti sfreccino alle spalle) e con una paresi facciale dipinta sul volto.

A Vlore mi ammalo di nuovo: dopo tre giorni in cui tiro la corda, percorrendo circa 100 chilometri, mi fermo in un ostello e la notte ho mal di pancia, qualche linea di febbre e mal di testa. Immagino sia qualcosa che ho mangiato. Comunque è quanto basta per impormi un altro giorno di stop e abbassare il ritmo. Inizio a considerare l’idea di spostare la mia destinazione a Corinto. Già da alcune settimane il viaggio si è trasformato in qualcosa di diverso rispetto alle mie aspettative iniziali. Prima di partire pensavo che avrei dedicato una mezza giornata al cammino e un’altra metà all’esplorazione dei luoghi nei quali mi sarei fermato. Ma le cose sono andate in maniera diversa. Il camminare ha occupato solitamente 8-10 ore, con punte di 12. Nelle poche ore rimanenti monto la tenda, mi procuro del cibo, mangio e mi distendo distrutto.

Intanto supero l’Albania del sud (molto più turistica e piena di maledetti sali e scendi) ed arrivo in Grecia. Qui sento distintamente il serbatoio andare in riserva. Percepisco anche un nuovo tipo di fatica: ogni giorno le gambe, superati i 20 km, sembrano rispondere meno ai miei comandi. Comunque stringo i denti e continuo. Poi una mattina, diretto verso Preveza, prendo la decisione di fermarmi. Sento chiaramente di aver raggiunto il limite. Da quel momento in poi continuare può significare farmi del male. Il solo pensiero non mi sembra possibile. Dopo 60 giorni, 7 nazioni attraversate, 5 chili persi e 1420 chilometri percorsi, non sopporto l’idea di fare un solo passo in più.

Foto di Umberto Guerra

Penso alle centinaia di volti che ho incontrato. Sconosciuti che mi hanno scrutato, chi con diffidenza, chi con simpatia, chi con indifferenza. Estranei che mi hanno aiutato, senza che ne avessero niente in cambio.
Per tre volte ho incontrato degli amici italiani che per una coincidenza del tutto fortuita hanno incrociato il mio percorso, e che mi hanno tranquillizzato sul fatto che non stavo sognando tutto e che esisteva una mia vita precedente alla camminata, nella quale mi avevano conosciuto. Ho incontrato anche centinaia di luoghi, piccoli paesini nei quali mi fermavo sempre volentieri e centri turistici più movimentati dai quali mi son tenuto alla larga il più possibile. Ho conosciuto per la prima volta nella mia vita la strada, anche se è sempre stata sotto i miei piedi e non lo sapevo. Ho imparato che a volte può stancare e ho preso atto del fatto che non sono Superman (ma già lo sospettavo).

Penso a tutte quelle persone che mi hanno chiesto il senso di quello che stavo facendo, senza che io sapessi cosa rispondere. Ora potrei dir loro: “Ho fatto qualcosa di completamente inutile, che mi è costato tempo, fatica e denaro. E l’ho fatto senza un motivo preciso: non stavo cercando né me stesso né qualcun’altro. L’ho fatto, banalmente, perché mi andava di farlo.
E, ben pensandoci, è un motivo più che sufficiente, no?”

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Foto di Umberto Guerra

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