in collaborazione con Ludovica Abdinur

Creatura strana Alfio Antico. Un uomo silenzioso e pacato che nell’attesa dei miei compagni d’intervista mi insegna un vecchio gioco con i sassi che faceva sempre quando era bambino, un uomo che parla piano della sua vita semplice e della sua famiglia, le cui donne tanto hanno inciso sulla sua decisione di imparare i ritmi, le musiche della sua terra. Che ancora si incanta nell’ammirare la natura che lo circonda, si tratti delle lande della sua Sicilia o delle Mura ferraresi, dove ci troviamo per questa chiacchierata in movimento.

Il suo nuovo album “Antico” è diventato in breve un caso nella musica degli ultimi anni. Non ho intenzione di dilungarmi in descrizioni di un genere come la musica tradizionale italiana (che persino io so essere stupidamente grossolana come definizione, dati gli infiniti micro universi che la compongono) che di base non mi appartiene, ma posso tentare una spiegazione del fenomeno.

Il disco nel complesso è piuttosto spiazzante, sia per chi è già fortemente istruito in materia di folk italiano sia per chi, come me, non ne sa nulla: è un ibrido che mai mi sarei aspettato potesse funzionare così bene.

È un disco che funziona perché sorprendentemente equilibrato nelle sovrapposizioni di mondi: da un lato mantiene la purezza di Alfio Antico come ultimo bastione della musica tradizionale, capace di evolversi in un genere altrimenti sempre uguale a se stesso, dall’altro, avvolge il suono della voce e del tamburo in un manto di suoni totalmente contemporanei e, in alcuni casi, al limite del noise. Senza soffocare e senza mutare il concetto base, sintetizzatori e mezzi sintetici vanno a rendere attuali pezzi come “Storii di pisci” e “‘Ntra li muntagni”, le cui suggestioni liriche sono invece legate a un mondo che non c’è quasi più.

Non è solo materiale da musicofili.
Ammesso che sia una cosa negativa.
Forse molti avanguardisti potrebbero imparare da questo disco a maneggiare con più consapevolezza e attenzione questo bagaglio musicale così lontano da noi, anche solo temporalmente.

Abbiamo parlato con lui della vita pastorale, della genesi di questo disco e del suo rapporto con Ferrara.

L: Ho letto nella sua biografia che ha vissuto i primi diciotto anni della sua vita a Lentini, in ambito prettamente pastorale. 

Sì, nel siracusano, nella fascia che viene chiamata Magna Grecia, a Lentini.

L: Mi interesserebbe sapere qual è stato il suo primo impatto con una realtà così diversa dalla sua di appartenenza una volta lasciata la Sicilia.

Eh un po’ mi sono spaventato.

L: Come ha iniziato il suo percorso musicale, come si è avvicinato alla musica?

Ho sempre avuto un rapporto con la musica grazie ai nonni materni. Nonno suonava lo zufolo di canna, nonna suonava i tamburi popolari. In particolare mi colpì molto come batteva su questi strumenti pesanti, la grazia con cui lo faceva, i ritmi. Mi colpì molto quando ero bambino. Ho sempre costruito flauti ma non ho mai saputo suonarli, ho preferito il tamburo. Da lì è nato tutto.

Approfittai del fatto di dover accompagnare mio padre a Bologna e mi fermai da mio fratello maggiore a Firenze, dove conobbi Eugenio Bennato che in realtà non sapevo nemmeno chi fosse. Però era bravo a suonare.

Dopo poco lasciai la Sicilia per unirmi ai Musicanova, alla fine del ’77. Ho fatto tante esperienze, dal teatro, al balletto. Sperimentazioni in ambiti diversi che mi hanno portato lontano.

La musica popolare l’ho sempre vista come una cosa che dopo un po’ “finisce”… (la rendi grande e finisce?!)

Foto di Simonetta Caiozza

L: A tal proposito, ho letto che in un qualche modo teme l’estinzione della musica popolare. Crede che l’unione con generi di accezione più contemporanea possa dargli nuova vita?

Credo di sì. L’unione può far riscoprire la grandezza del “popolare”. Per esempio ho suonato “Tammurriata Nera” per vent’anni ma suonandola con le persone giuste, che sono profonde conoscitrici e amanti del genere, la rendono più forte. Per musica popolare a volte si intende una sorta di gara a chi arriva prima, è un po’ snobbata, trattata male. E snobbarla significa snobbare anche i valori. Ci sono milioni di tarantelle: tarantella dl dolore, tarantella del pianto, dell’amore, pagana. Forse è il teatro che me l’ha fatta intendere in modo diverso. Quando Maurizio Scaparro mi chiamò per “Vita di Galileo Galilei” voleva tre moduli distinti ed io ho sempre amato mettere insieme diversi suoni, diverse ‘voci’ di tamburi: ognuno ha il suo suono, se ne rompo uno non riuscirò mai a ricreare lo stesso suono, sono come figli, ognuno ha la sua personalità.

La musica popolare va interpretata, se no rimane tutta uguale: è come se uno dicesse “Buongiorno!” e tutti lo ripetessero allo stesso modo.

Io ho anche un metodo un po’ diverso nella composizione, creo dei suoni prima di tutto. Quando si facevano le transumanze, il movimento delle campane ti faceva capire cosa gli animali stavano facendo. Ho provato a riportare questa sensazione nella musica.

L: Ci vuole parlare della lavorazione dell’album?

“Antico”. Io mi chiamo Alfio Antico.

L’album nasce da un desiderio di Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, ci conosciamo da molto tempo ma non avevamo mai collaborato. Lui voleva fare qualcosa insieme a me e nessuno dei due però aveva idea di come sarebbe andata. Abbiamo unito i suoni sperimentali ed elettrici di Mario Conte, bravissimo.

Quello che mi ha colpito di Lorenzo è il rispetto con cui ha trattato il mio vissuto, il mio modo di creare e di scrivere, non è mai stato aggressivo né invadente nella composizione.

L’abbiamo registrato in posti dove io di solito vado a rilassarmi, a isolarmi, a pensare. Nelle Madonie, a Gangi, provincia di Palermo. Abbiamo cantato, suonato e dormito a 230 m, appena sopra di noi c’erano delle mucche, a volte riuscivi a sentirne lo scampanio.

Ho osservato la natura, i valori, la semplicità, il vento, che se anche non lo vedi lo senti. Ho osservato il mercato del pesce, mi ha sempre affascinato, gli urli dei mercanti, ognuno così unico. Ho osservato il loro linguaggio metaforico.

Sono sempre stato affascinato dalla mitologia, mi sono immaginato una bucolica in cui il caprone osserva l’incuria per la terra dell’uomo e dice: “Come? Io ti dono latte e tu sporchi la mia terra?” (“Ninna nanna del Caprone” ndr). Il disco parla anche del distacco di un mondo, quello delle campagne, che non esiste più.

L: C’è un pezzo all’interno dell’album che ritiene essere più rappresentativo di quello che è la musica popolare?

“Indovinelli”.

A: Come scrive un pezzo? Nasce prima la voce, la musica…

Nasce nella malinconia, dai desideri, Sono trent’anni che vivo a Ferrara, le parole per la mia terra le scrivo quando sono qui, nella nebbia, che non mi appartiene.

A: E’ anche un modo per riconcepirla in un certo senso.

Sì. Poi suonicchio la chitarra, tento di immaginarmi delle atmosfere, mi faccio trascinare dal desiderio di quello che vorrei fare. Ho sempre creduto molto nei sogni anche. Ho sempre sognato di fare questo, di fare musica. Credo che certe cose siano scritte, poi sta a te saperle gestire. L’importante è non perdere mai l’amore per se stessi, amare ciò che si fa. Sono stato fortunato a essere scoperto da Bennato. Ho potuto godere anche del non rendermi conto e non rendermi conto del non rendermi conto: quando ho sentito di lasciare Musicanova l’ho fatto, ma non so il perché. Ho preferito seguire Bennato perché la musica cresce, mentre il popolare rimane fermo. Quella scelta ha creato l’Alfio Antico di oggi.

Dico che il teatro mi ha dato tanto perché tramite “Vita di Galileo Galilei” sono rientrato in contatto con quella vita pastorale di cui mi vergognavo da giovane. Io mi vergognavo di vendere la ricotta al mercato, i miei coetanei mi prendevano in giro. Le persone che davanti alla tavola apparecchiata preferiscono ringraziare Dio piuttosto che il fornaio, mi hanno riportato a pensare che io il latte lo so mungere, la ricotta la so fare, il pane lo so fare. Sì, ringraziare Dio, ma Dio se c’è è dentro di noi. Credo poco nei preti, ma credo nell’idea della religione.

A: È un approccio molto blues, popolare appunto. 

Sì. Ho sempre amato la mitologia ma non ho mai avuto molto tempo per leggere, ho imparato attraverso i racconti di nonno.

A: Questo è puramente legato alla mitologia, la trasmissione orale. 

Conosco bene Teocrito, un po’ Virgilio.

A: Prima parlava della staticità della musica popolare. Io non sono un esperto di musica popolare ma ascoltando il disco, paradossalmente, ci ho trovato più punti in comune con “Drum’s Not Dead” dei Liars che con un disco folk alla Lomax, per intenderci. È molto “effettato” , quasi “molto prodotto”.

È un disco che trasmette la voglia di suonare insieme.

A: Mi aspettavo un approccio un po’ più “field recording”…

Anche Bennato con Musicanova aveva del moderno non so perché non sia arrivato a questa operazione. Trovo positivo rischiare. Avere coraggio. Io per esempio non credo esista la stonatura.

A: Come diceva Greg Ginn, “se ripetuta diventa una consuetudine”. Ritorna il blues.

Lì erano canti degli schiavi, noi abbiamo canti carcerari.

A: Ha detto che ha ricordi legati alla musica sin dall’infanzia, ma cos’ha ascoltato nella sua vita?

Musica barocca, classica. Ogni tanto del rock ma non lo capivo. Troppo rumore.

A: Neanche i Black Sabbath?

No, no.

A: È che ho sempre avuto quest’idea che la cadenza ritmica di alcuni pezzi dei Black Sabbath fosse molto simile alla tarantella. 

La tarantella ha un ritmo sempre pari. (Andrea intona un ritmo sabbathiano ndr)

A: Sempre a proposito della scomparsa della musica popolare, mi ronzava in testa questa frase di Jim Morrison: “Poesie e canzoni potrebbero essere le uniche cose in grado di sopravvivere a un olocausto.” Probabilmente una musica del genere la cui vita si tramanda tramite conoscenze orali ha più possibilità di rimanere. 

Se si resta legati alle proprie radici le cose non solo rimangono ma ne possono nascere altre più forti. Ma dobbiamo sbrigarci perché certe cose sono già perdute.

L: Chiuderei chiedendole com’è il suo rapporto con Ferrara. 

Bello. Mi dà pace, tranquillità. Ma non giro molto, sto più in casa, ho il mio studio. Suono la chitarra, riprendo cose che avevo scritto: spesso riprendo cose che ho scritto sulla mia terra e la distanza aiuta a renderle giustizia con la mia musica. Ricreo l’atmosfera. Basta solo pensare ai nomi della provincia: Pontelagoscuro. PONTE-LAGO-SCURO. Per me che vengo dal sole, dalla Sicilia, è strano.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.