Ascanio Celestini è un uomo dalle mille forme: quella televisiva degli intermezzi veloci e pungenti, quella dei libri o del cinema sperimentale e quella infine a lui più congeniale del teatro narrativo. Qui la scena conta poco o nulla, le luci creano un luogo rarefatto ed intimo dove trovano spazio solo l’attore e il pubblico che ascolta attento un monologo fiume che ti prende alla prima parola e ti trascina giù in un vortice fino al termine.
Come nel caso di Laika, l’ultimo suo lavoro in scena da ieri a domenica 13 marzo al Teatro Comunale Abbado di Ferrara.
C’è la critica sociale e insieme l’ironia amara di vite sempre precarie nelle storie raccontate per dare voce ad alcuni personaggi che si muovono intorno ad un quartiere qualunque della periferia di Roma, nota a Celestini fin dalla sua infanzia.

Storie di persone emarginate di cui al bar di fronte casa non hanno mai sentito parlare, dove si passano le ore a bere sambuca scadente senza mai mettere piede fuori per guardarsi intorno e capire cosa succede. Ecco allora arrivare un povero Gesù moderno e frastornato che indossa gli occhiali da cieco per mescolarsi tra la gente e tentare di salvarla quando Dio non esiste più e nessuno sembra avere davvero una via di scampo, neppure parziale, alla triste piega che ha preso la sua vita.

È un Cristo stralunato e curioso che solo alla fine tenterà immolandosi di prendere le difese dei lavoratori in sciopero in un parcheggio di un supermercato, dove facchini attendono il successivo turno massacrante bevendo birra scadente per non tornare nemmeno a casa ubriachi, dove le famiglie un po’ li schifano, in un perenne loop che trova fine solo con un licenziamento per andare a fare i barboni davanti al supermercato stesso. Dove una vecchia non crede più in niente perché non ne ha più il tempo e nonostante sia in pensione le tocca lavorare più di prima, o dove una signora “con la testa impicciata” continua a vivere un mondo in cui il figlio non è mai morto in un incidente stradale e l’unica via di scampo è la fede cieca verso un Dio che non si fa mai sentire. Non esiste, appunto, come sostiene Stephen Hawking che però è stato punito proprio dal creatore togliendogli il saluto, nel senso che il fisico in carrozzina nemmeno può più salutare nessuno se non attraverso un computer che lo fa parlare “come un navigatore satellitare”.

Sul palco, nei panni di in improbabile apostolo e coinquilino Pietro, ci sono Gianluca Casadei e la sua fisarmonica, la cui sola voce è in realtà fuori campo (Alba Rohrwacher), a sottolineare lo sbilenco incedere delle storie che Celestini intreccia in un affresco che alterna riso e amaro.

Così, mentre la volta celeste sembra cadere in un giudizio universale finale non c’è nessuna redenzione per i personaggi della storia e nemmeno stare a guardare può essere sufficiente per sentirci assolti o in pace con noi stessi.
Celestini ci porta al largo dalle spiagge di Ostia, dove inizia il mare, per cercare la vita alla fine dello spazio e un senso ad un’esistenza che non ha altro di importante se non la vita stessa nel suo essere al contempo fatta di alti e bassi, di eterne speranze ed eterni dolori. Nei parcheggi di un supermercato così come in un monolocale di trentacinque metri quadri, dove ridurre e concentrare tutto l’universo con i suoi difetti e la sua umanità fatta di poesia, specialmente quando nasce tra gli abbandonati, i derelitti, la gente di strada.

Come Laika, la prima cagnetta spedita in orbita nello spazio dai sovietici, per qualche ora “l’essere vivente che è stata più vicino a Dio” se mai da qualche parte esistesse. Un cane di strada, appunto, una presenza laica, con la c, spedita nell’infinito cosmico al cospetto dell’ignoto, alla ricerca di un significato esistenziale in un mondo sbilenco e allucinato che Celestini mette in scena in tutta la sua beffarda realtà. Uno spettacolo che forse meriterebbe di stare anche tra quelle strade, bar e piazzette di periferia che racconta, oltre ai palcoscenici assai più borghesi dei teatri cittadini.

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