Non credo che Simone de Beauvoir si sia mai interessata al rugby femminile. Anche perché, per motivi strettamente anagrafici, quando la filosofa francese se n’è andata, le ragazze che praticavano questo sport erano confinate in un vero e proprio ghetto fatto di semi-clandestinità e derisione. Scomodare una delle più grandi intellettuali femministe del secolo scorso potrebbe essere improprio, ma ora che ho incontrato le Velenose non posso fare a meno di pensare a quella fin troppo abusata citazione da otto marzo tratta da “Il Secondo Sesso” (1949) in cui de Beauvoir faceva presente come in fondo tutte nascano femmine, ma che donne si debba diventare. Con le dovute proporzioni, probabilmente tutte le ragazze possono essere sportive, ma per diventare Velenose serve decisamente qualcosa in più se si pratica quello che per definizione – sciocca – è uno sport “per veri uomini”.

Già il nome, Velenose, accostato a una squadra di rugby femminile, non è che sia proprio rassicurante. Il bello è che se le Velenose portano questo nome non è per darsi un tono fatto di cattiveria e pericolosità, ma lo devono a una circostanza abbastanza casuale. Dietro c’è Luca Rizzati, uno dei volti più noti del rugby ferrarese e del Cus, per tutti soprannominato “Veleno”. A lui fu affidato il compito nel 2009 di mettere insieme una squadra di ragazze e di allenarla, con tutte le difficoltà che questo comportava. D’altra parte il rugby non è esattamente in cima agli sport che una ragazza sogna di fare. Le difficoltà nel reclutamento sono ancora all’ordine del giorno e costringono le Velenose a praticare il rugby a 7, nel contesto di un campionato regionale in cui si gioca un paio di volte al mese. Oggi “Veleno” non si occupa più delle Velenose (pur restando nei quadri del Cus Ferrara Rugby) e la guida tecnica è affidata ad Andrea Fabbri, uno dei veterani del rugby cittadino. Fabbri tra l’altro può fregiarsi del platonico titolo di pioniere del rugby femminile italiano, visto che già alla fine degli anni Ottanta organizzò alcune squadre amatoriali (quindi non riconosciute dalla Federazione Italiana Rugby) e nel 1991 guidò la Nazionale Femminile alla prima partecipazione a un campionato mondiale. “A quell’epoca –mi ha detto Fabbri con un sorriso – le donne avevano come obiettivo principale dimostrare che potevano giocare anche loro e che non erano per niente inferiori agli uomini”. Si può dire che il risultato venne raggiunto, visto che in quello stesso anno la FIR inquadrò l’attività femminile nell’organizzazione.

Foto di Giulia Paratelli

Si può quasi dire che la presenza di coach Fabbri abbia salvato le Velenose, visto che al momento del suo subentro in panchina, nell’aprile 2015, la squadra era reduce da diversi mesi di autogestione. “Abbiamo avuto qualche problemino, ma l’arrivo del coach ha sistemato tutto”. A fare questa ammissione senza ulteriori aggiunte di particolari è Silvia Telloli, per tanti anni capitana della squadra e ora… sorella maggiore delle Velenose. Un infortunio serio l’ha costretta a chiudere la sua carriera da giocatrice, così ora dà una mano da bordo campo, presenziando ad allenamenti e partite, studiando a sua volta da allenatrice. È a lei che ho chiesto per prima cosa spinge una ragazza a scegliere il rugby femminile a fronte di decine di altri sport che il senso comune vorrebbe più adatti. Giustamente si è messa a ridere e mi ha spiegato che spesso è il caso a condurre le ragazze verso il rugby: “Io ci ho provato quasi per scherzo con delle mie amiche con cui praticavo pallamano. Ci è piaciuto e abbiamo continuato”. Se si chiede alle altre Velenose, le storie non sono molto diverse. Ilaria è una delle amiche che ha iniziato con Silvia. Elena a sua volta deve ringraziare Ilaria: “Mi ha tampinata fino a che non mi ha convinta”.

Se non sono le conoscenze comuni a condurre verso il rugby femminile, bisogna sperare nelle abilità del già citato Veleno, che periodicamente visita le scuole di Ferrara e provincia per proporre delle dimostrazioni. È il caso di diverse delle attuali giocatrici, tra cui Maria Chiara: “Alla prima lezione che ci venne fatta da Veleno, Silvia mi placcò e quando mi alzai mi chiesi: ‘Ma come ha fatto?’. Da lì è diventata un sfida”.

La percentuale di abbandoni prematuri rimane comunque elevatissima, nonostante il rugby si possa praticare fin da piccoli (dai 6 ai 12 si fa attività mista, poi ci sono le Velenosette under 16).  Tra chi si trova male al primo allenamento e chi incontra le resistenze dei genitori, sono davvero in poche a proseguire. Chi “sopravvive”, come mi ha detto Silvia soprannominata “Becky”, lo fa perché si appassiona per davvero e scopre di avere qualità che nemmeno immaginava. “Per me – ha ammesso Elisa – ogni volta è una scarica di adrenalina pazzesca che si rinnova ogni volta. Ci si mette più determinazione a conquistare quattro centimetri di campo che a fare cento metri di corsa”. “Nel mio primo allenamento sono stata steccata per bene da Maria Chiara, – ha raccontato Ludovica, ridendo – ma mi sono divertita”. Un’altra vittima di Maria Chiara è stata Virginia: ““Nel primo allenamento ci si esercitava sui placcaggi e ricordo bene di averne preso uno da Maria Chiara. Mi sono chiesta subito: ‘Come fa una donna ad avere tutta quella forza?’”. “Credo di aver impiegato un paio di allenamenti per capire come funzionasse – ha ammesso Silvia F. con grande candore – però ricordo di essermi sentita un po’ sollevata vedendo che attorno a me c’erano tutte ragazze normalissime”.

Foto di Giulia Paratelli

Diverse tra le Velenose ancora oggi non possono contare sul sostegno dei genitori. “Mia madre – ha raccontato Elena – è terrorizzata ancora adesso dall’idea che io giochi a rugby, diciamo che preferisce non sapere”. Stessa storia per Ilaria (“Mia madre non perde mai occasione per chiedermi quando ho intenzione di smettere”), Maria Chiara (“Ho impiegato un anno a convincere i miei a lasciarmi venire”) e Silvia: “Vivendo da sola, ho aspettato un po’ prima di raccontare loro che giocavo a rugby. Mi chiedono sempre se non potevo scegliere un altro sport. Non sono mai venuti a vedermi giocare probabilmente perché hanno paura che mi succeda qualcosa”. Altre sono più fortunate, come Ludovica: “Mio padre mi ha detto una roba del tipo ‘Contenta tu…’. Anche perché fin da piccola sono stata incoraggiata a fare sport” o Giulia G.: “Pensavo che i miei genitori mi dicessero di no, invece mi hanno incoraggiata fin da subito”. Nel caso di Annachiara invece è servito un po’ di lavoro ai fianchi: “Papà faceva karate, per cui fin da piccola l’ho fatto anch’io per diversi anni. Quando ho deciso di lasciare a momenti gli è venuto un colpo, ma poi si è detto contento lo stesso. Mia madre invece mi sembra meno entusiasta”.

Superate le eventuali ritrosie dei genitori, di norma arriva il giudizio degli altri a presentare il conto. Le Velenose sono le prime rugbiste che io abbia mai incontrato, per cui mi incuriosiva molto conoscere la reazione più comune al momento di raccontare agli altri quale sport praticano. Nel caso di Giulia R. “Rimangono tutti un po’ così, ma io sono fiera di dirlo, anche se questo fa spalancare gli occhi alla gente”, mentre per un’altra Giulia della squadra “La gente fatica a crederci e ti squadra per un po’ per capire se dici sul serio”. La terza Giulia sperimenta reazioni più o meno sulla stessa linea: “Di solito quando dico a qualcuno che gioco a rugby seguono due o tre secondi di mutismo, anche perché tanta gente neanche sa che esistono le squadre femminili”. Per spiegare cosa si prova ogni volta, Maria Chiara mi ha raccontato una storiella: “Da fuori sembra quasi che facciamo lo sport più pericoloso in assoluto. Una volta mi è capitato di cambiarmi negli spogliatoi del fitness e di sentirmi chiedere da una signora se ero una nuova allieva di qualche corso. Quando le ho detto che gioco a rugby quasi si è spaventata, iniziando a chiedermi se non avessi paura di farmi male”. “A volte – mi ha detto Silvia F., con ironia – chiedono se faccio la palla o se gioco con i maschi”.

Foto di Giulia Paratelli

Tutto questo nelle migliori delle ipotesi, perché la lista di pregiudizi che circonda il rugby femminile è lunga e non serve necessariamente intervistare delle rugbiste per rendersene conto. Però aiuta. Viene dato per scontato che si debba essere per forza aggressive (“se non proprio cattive” ha sottolineato Ilaria), fisicamente imponenti (“Ti guardano e ti dicono: ‘Non fa per te’”), brutte (“Mi dicono: ‘Sei tanto bellina, perché ti devi rovinare facendo rugby?’”) mascoline (“Ah allora bevete e vi picchiate?”) o addirittura lesbiche: “è probabilmente la cosa più stupida che si possa dire a una ragazza che fa rugby, – mi ha detto Elisa – come se questo importasse qualcosa. Purtroppo questo è il pregiudizio che io incontro più spesso”. Considerato che la schiacciante maggioranza di questi pregiudizi viene dall’ambito maschile, mi è venuto spontaneo chiedere alle Velenose se per loro sia ancora valida quella rivendicazione di parità che animava le rugbiste allenate dal loro stesso coach negli anni Novanta: “Non credo ci sia ancora quel tipo di discorso – ha ammesso Maria Chiara – ma un forte pregiudizio da parte dei rugbisti maschi c’è ancora”. Virginia ha chiarito ancora meglio il concetto: “È comprensibile che ci siano difficoltà per i maschi nell’accettare il rugby femminile, perché ai loro occhi non è accettabile sentirsi inferiori nel caso una femmina dimostrasse di giocare meglio di loro”. “Sicuramente – ha sottolineato Giulia R. – c’è ancora tanto da fare, perché si sente dire che le donne non ci sanno fare o che sono completamente incapaci di giocare. Mi è anche capitato di sentire allenatori dire: ‘Piuttosto che allenare le ragazze smetto’”. Annachiara è stata ancora più lapidaria: ““Non è un aspetto a cui si pensa normalmente, però a me viene spontaneo fare il confronto tra i nostri risultati e quelli delle squadre maschili. Dicono tanto di noi e poi magari fanno figure ben peggiori”. In compenso mi è parso di capire che al Cus il clima tra rugbisti e rugbiste sia tendenzialmente disteso (“Siamo una grande famiglia e ci sosteniamo a vicenda”), anche se non mancano le frecciatine: “Tanti dei ragazzi ci vedono come la sorellina nata dopo, a cui i genitori riservano qualche coccola in più. E questo li fa un po’ ingelosire”.

Se però si vuole davvero ampliare questo movimento e liquidare i pregiudizi, non si può ricondurre tutto a una semplice contrapposizione tra rugbisti e rugbiste. C’è un grande lavoro da fare anche sullo stesso fronte femminile per superare la diffidenza che circonda questo sport. E se dovessi scegliere uno slogan da mettere su un manifesto, penso faticherei a trovarne uno più brillante di quello sfoderato da Maria Chiara durante la nostra chiacchierata: “Io dico a tutte una cosa molto semplice: di venire a provare, perché il fisico non c’entra niente. Appena entri in campo capisci subito qual è il tuo destino: scappare o prendere chi scappa. È tutto lì”.

1 Commento

  1. Andrea scrive:

    complimenti, c’è qualche piccola inesattezza ( Veleno è tornato a collaborare col femminile, nel 1989 quando ebbi l’ incarico dalla Lega Rugby Femminile di selezionare la nazionale il movimento esisteva già da alcuni anni come campionato UISP ) ma rende bene l’ idea dell’ ambiente in cui vive la squadra…. e visto che oggi è l’ 8 marzo

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