I discorsi ufficiali possono essere noiosi, prevedibili, nauseanti anche, per la patina grigia di formalismo e ipocrisia che quasi sempre indossano. Eppure ogni tanto andrebbero ascoltati, letti tra le righe, rovesciati. È questo che pensano Alex Deutinger e Marta Navaridas, autori di “Your Majesties”, ed è difficile dargli torto dopo averli visti in scena, impegnati a smontare e demistificare il ringraziamento pronunciato da Barack Obama a Oslo nel dicembre del 2009, in occasione della consegna del premio Nobel per la pace.

La trascrizione si trova online, tradotta dalla Presidenza degli Stati Uniti in tutte le lingue del mondo, essendo rivolta precisamente a tutto il mondo. Comincia così: «Your Majesties, Your Royal Highnesses, distinguished members of the Norwegian Nobel Committee, citizens of America, and citizens of the world».

Anche lo spettacolo – in scena venerdì sera a Occhiobello, l’ultimo della stagione – si rivolge precisamente a tutto il mondo, ma comunica attraverso il linguaggio del corpo, la mimica e le espressioni facciali, la gestualità. Attraverso la postura e il movimento suggerisce una lettura ancora più controversa del testo, già intrinsecamente contraddittorio.

I suoi ideatori e interpreti sono attori e danzatori: Alex, austriaco di Salisburgo, e Marta, spagnola di San Sebastian. Una coppia stanziata a Graz, impegnata sui palcoscenici europei, che trova linfa per le proprie produzioni dalla professione principale che svolgono entrambi, quella dell’interprete.

I due, che nella vita quotidiana traducono le parole in altre parole, sulla scena traducono le parole in azione, trasferendo il significato del discorso ad un livello più profondo e veritiero, ironico e caustico, ridicolo e doloroso.

Lui veste i panni di Obama, completo elegante e cravatta d’ordinanza. Lei – alle spalle del pubblico, in piedi su una pedana – diventa il suo gobbo, un gobbo molto particolare. Mentre lui enuncia lei si agita, e lui è costretto a proseguire lo speech imitando i movimenti suggeriti da lei, che gli fa divaricare le gambe e togliere le scarpe, masticare una gomma a bocca aperta, alzare il braccio e gonfiare il petto come superman, cavalcare invisibili cavalli al galoppo nella prateria, ballare frivolo mentre le labbra si aprono a pronunciare cose come queste.

Foto di Corradino Janigro

«A prescindere dagli errori che abbiamo commesso, il dato di fatto puro e semplice è questo: gli Stati Uniti d’America hanno contribuito per più di sessant’anni a proteggere la sicurezza globale, con il sangue dei nostri cittadini e la forza delle nostre armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e ha consentito alla democrazia di insediarsi in luoghi come i Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per interesse illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e siamo convinti che la loro vita sarà migliore se altri figli e nipoti potranno vivere in libertà e prosperità. Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace».

La frattura tra ciò che si ascolta e ciò che si vede è funzionale a smuovere la coscienza dello spettatore, anche se la direzione non è stabilita. Non lo è perché ad ogni replica la performance si rinnova: i gesti che accompagnano le frasi non sono fissi e definiti, Alex deve continuamente tenere d’occhio la sua compagna e assecondarne l’improvvisazione. Non lo è perché nel frattempo sono passati sette anni dalla cerimonia del premio Nobel e mano a mano che la storia procede il panegirico assume sfumature nuove.

Un’idea semplice ma potente, una modalità di lavoro sicuramente inusuale per buona parte del pubblico che ha partecipato, probabilmente abituato a rappresentazioni più classiche e frontali. «Ci piace ogni anno provare a inserire in cartellone qualcosa di nuovo e di diverso – commenta Marco Sgarbi, direttore artistico -, una sfida raccolta da chi ci segue, perché negli anni il pubblico si è dimostrato sempre più fedele e affezionato. Questa è la terza volta che “Your Majesties” viene in Italia, non è qualcosa che capita di vedere in giro tutti i giorni».

Sono gli stessi attori a fornire qualche indicazione in più sull’obiettivo e il senso del loro lavoro, seduti a tavola dopo la rappresentazione, tra un cappellaccio di zucca e un bicchiere di vino.

«L’ispirazione ci è venuta dall’opera di un artista che aveva realizzato un fotomontaggio dove Ghandi, al posto di sedere a gambe incrociate vicino al telaio, sedeva vicino a un Mac. Abbiamo pensato: quale può essere un’icona universale, riconoscibile da tutti ma capace di trasmettere significati diversi? Obama ci è sembrato perfetto. Abbiamo iniziato a documentarci sui suoi interventi pubblici, ce ne sono tanti di celebri e parecchio discussi, ma quello di Oslo probabilmente è il più controverso: il premio è stato affidato al presidente degli Stati Uniti all’inizio del suo mandato, non si sapeva ancora come avrebbe agito ma di sicuro si sapeva che guidava una nazione impegnata militarmente su tutti i fronti più importanti».

La traduzione simultanea in italiano rappresenta un terzo livello di comunicazione, assieme al testo recitato in inglese da Alex e il commento gestuale di Marta. Quanto è funzionale alla messa in scena?

«In tanti Paesi, come l’Inghilterra naturalmente ma anche la Svezia o la Svizzera, portiamo in scena il testo recitato in inglese, senza problemi. In Spagna e in Italia questo non è possibile, troppe persone non lo capirebbero. Ci siamo interrogati a lungo su come rendere fruibile il lavoro e alla fine abbiamo optato per la traduzione simultanea. In Spagna abbiamo coinvolto in questo ruolo una nostra amica, una speaker radiofonica. L’effetto era preciso, sembrava di ascoltare il resoconto di un incontro a Bruxelles. Nei Paesi in cui è normale tradurre, questo terzo livello si è rivelato assolutamente funzionale. La performance non perde niente, anzi: guadagna credibilità. Perché è esattamente così che le persone sono abituate a sentir parlare i leader stranieri».

La reazione del pubblico cambia a seconda di dove portate lo spettacolo? Come e in che condizioni?

«Ogni serata è diversa, allo stesso modo le reazioni. Ci sono posti dove si ride tantissimo, prevale l’aspetto ironico e umoristico, altri invece in cui la ricezione è più silenziosa, maggiormente condizionata dal  dato lugubre di un presidente che chiede la pace riaffermando la necessità della guerra. Questo per esempio è successo in Serbia e in Croazia, Paesi dove il conflitto si è concluso da relativamente poco tempo. È capitato anche che ad una replica assistessero dei cittadini americani che alla fine vollero lamentarsi, si sentivano profondamente offesi da quello che avevano visto. Noi non vogliamo pilotare le emozioni di chi guarda, quello che ci preme è soprattutto rappresentare la mediazione dell’espressione, il fatto che dietro ciò ascoltiamo ci sia uno studio e un copione da seguire, nelle frasi così come nelle pause, nel tono di voce, nei gesti. È come il mito della caverna di Platone: quello che vediamo in televisione è solo l’ombra di ciò che non vediamo. Con questo spettacolo offriamo metaforicamente alle persone la possibilità di girarsi, voltare la testa e fronteggiare la realtà, quella del burattinaio invisibile».

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