Se un bambino scrive nel suo quaderno «l’ago di Garda», ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?

Gianni Rodari, Grammatica della fantasia

C’era una volta un errore. Poi quell’errore incontrò la penna rossa della maestra Margherita: diventò così un neologismo. Il suo nome era ‘petaloso’. Poi arrivò una lettera di risposta dall’Accademia della Crusca e il termine si trasformò per magia. Diventò #petaloso, detto anche “il termine più social del mondo di ieri” secondo le tendenze segnalate da Twitter, secondo le macchine Fiat disposte a fiore su un prato, nella navetta che “sembra un fiore #petaloso” dell’astronauta Luca Parmitano. E poi da Plasmon, Haribo, National Geographic, Treccani. Dalla terza elementare Marchesi di Copparo, petaloso finì nei discorsi del premier Matteo Renzi.

Veloce e virale è stato il destino di petaloso, buffa parola inventata da Matteo Trovò, piccolo copparese di otto anni e molti sogni. Un neologismo che in pochissimo tempo ha fatto il giro del mondo, diventando una storia. Più storie. Soprattutto nei social network, dove – come si dice tra i grandi – è diventato il termine più trend della giornata di ieri, con 27 mila tweet ‘petalosi’ e 85 mila condivisioni al post della maestra.

Un tempo così breve che spaventa, e al contempo affascina. Ci esalta e ci opprime. Sia grandi che piccoli. Dalla bidella che non si sente pronta per posare davanti alle telecamere “perché non se l’aspettava”, non era nemmeno il suo turno di lavoro oggi a scuola, alla maestra preoccupata su come gestire la classe: “Non riusciamo più a frenare i bambini, ora tutti vogliono inventare nuove parole”. I bambini hanno fame, per loro è ora di andare a casa, ma le telecamere dicono loro cosa dire, cosa fare, “toglietevi il cappotto, mica state in casa col berretto, no?”. Loro obbediscono subito, silenziosi, curiosissimi. Come si spiega alla tv nazionale perché petaloso sta avendo successo? Cosa c’è nella testa di un bimbo di otto anni che vede la sua parola rimbalzare da una pagina internet all’altra? Che vede la propria mamma, emozionata e preoccupata, dire a microfoni spenti “basta, non voglio più parlare, per favore possiamo andare a casa ora?”? Che vede l’insegnante dover rispondere a così tante domande fatte da perfetti sconosciuti?

Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica. Ma io trovo che sarebbe un’energia troppo costosa. Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio la torre di Pisa.

Gianni Rodari, Il libro degli errori

C’era una volta l’errore, dicevamo, e c’è ancora. Come ancora c’è e dovrebbe esserci ben chiara l’immagine di Matteo, otto anni, di Copparo. Amante del basket e della matematica. A Matteo piace far sbellicare di risate i compagni e non pettinarsi facilmente. Gli piace risolvere problemi e giocare con i mattoncini colorati della Lego. Tra tutti i post che gli sono capitati di vedere, uno infatti l’ha colpito così tanto da fargli brillare gli occhi e spalancare la bocca in un sorriso. “Lo sai che ho visto in Internet un fiore ‘petaloso’ fatto addirittura con i Lego?”. Il suo è un tenero sorriso a cui manca un dente davanti, come tutti i veri duri della sua età. Scrive petaloso più e più volte alla lavagna, mette e rimette il suo quaderno di italiano dentro allo zaino, dice e ridice le cose che gli vengono chieste, sbagliando ancora sbagliando ‘meglio’ a ogni nuovo ciak. Rimbalza sui muri l’emozione di un bambino a cui batte tanto forte il cuore, tanto da sentirlo uscire dalla finestra delle elementari di Copparo e arrivare fin sulla luna, tanto da farlo zittire, da fargli sbagliare il suo petaloso, il nome della maestra. Matteo è l’evento del momento.

Nell’aula della III C, Matteo non è solo. Vicino a lui c’è Anna Laura, ci sono gli altri della sua classe. In tutto sono in 23. Anna Laura ha aiutato Matteo a scrivere la lettera all’Accademia della Crusca, per sapere come fare a inserire una parola, una parola che ci piace, nel vocabolario. È curiosa verso le telecamere che stanno riprendendo l’amichetto, ha un visino simpatico, lei è quella che in classe ha la calligrafia più bella.

Sbagliando s’impara, è un vecchio proverbio. Il nuovo potrebbe essere che sbagliando s’inventa.

Gianni Rodari, Grammatica della fantasia

C’erano una volta un errore e una maestra. Si chiama Margherita ed è una sorta di fata turchina per questi ragazzi. Di che colore sono i capelli della maestra? Rossi, azzurri, gialli, verdi o blu? Ora sono viola e indossa un maglione rosa. A vederla sembra tosta, Margherita Aurora, già diventata un caso nazionale per aver lanciato, due anni fa, le dieci regole per non fare i compiti durante le vacanze. È sempre pronta a farsi in quattro per i suoi ragazzi, ai più meritevoli distribuisce un dieci e lode con bacio in testa. Con lei la classe collabora alla lettera da inviare all’istituto nazionale che salvaguarda e studia la lingua italiana. Non solo, la sottoscrive pure, come patti di sangue fatti in un’estate che profuma di albicocche e pesche. E le lettere con lei vengono ancora scritte a mano. “Dopo che Anna Laura scrive in bella copia mentre io le detto – racconta Matteo – la lettera viene firmata da me, la maestra e sottoscritta da tutti gli altri della classe”.

Appena c’è nell’aria
odor di primavera
ecco le margherite
nevicare nei prati
mettendo il loro fiorellino
anche all’occhiello
del ciuffo d’erba più meschino.

Corrado Govoni, Margherite

C’era una volta la provincia ferrarese, i media locali e nazionali, la morte di un certo giornalismo. Matteo gioca a basket nella squadra locale, sogna di “diventare un grande giocatore” perché bisogna puntare alti, che a diventare ‘un piccolo giocatore’ si fa sempre in tempo, fa ridere tutti durante il catechismo. C’è una scuola, che per lui sembra il centro del mondo, avvolta nella pianura padana che più padana di così non si può. Poi, di colpo, una volta finito il gelato mangiato con la mamma, si accende il pc e internet diventa petaloso, tutto diventa petaloso, ogni cosa è illuminata e petalosa. Una infinita, voraginosa, mastodontica cascata di #petalosi. Il mondo, improvvisamente, scopre Copparo. Scopre un bambino che sogna una parola buffa ma che esplica bene i suoi pensieri, dove una margherita che ha tanti petali è, per forza di cose, petalosa. Contiene moltissimi petali e con lei la voglia di descriverli tutti.

Inventare una parola, che nasce da un errore, è o non è un atto rivoluzionario se a farlo è un bimbo di otto anni, a scuola? Un’insegnante che permette l’errore, lo esalta giudicandolo ‘un errore bello’, è o non è un buon capo per questa battaglia contro i mulini a vento del sistema scolastico italiano? L’istruzione primaria, per maestra Margherita, è “l’imprinting per tutto quello che i bambini affronteranno nella vita, per quello la scuola deve essere un luogo dove si sviluppano temi interessanti e divertenti, dove star bene”. C’è tempo, nella vita, per rompersi e annoiarsi. Per quello, per lei, è necessario impostare il lavoro con un clima in classe sereno e positivo. “Spesso la società impone ai bambini una serie di richieste non adatte alla loro età. Intendo delle richieste esagerate per la loro età interiore – sottolinea la maestra -. Per quanto li vediamo grandi, per quanto siano tecnologizzati, sono piccoli. Sanno magari usare benissimo lo smartphone, ma non sanno tenere in mano delle forbici”.

C’era e ci sono ancora le storie, che sta a noi preservare. Ogni favola ha una morale, l’importanza di discernere il bene dal male. Distinguere, o quantomeno provare a distinguere, il Cappuccetto rosso dal lupo, la nonna dal cacciatore. E nel frattempo, mentre petaloso passa di bocca in bocca, di servizio in servizio, di fiore in fiore, un giornalista locale – uno che di storie ne ha viste di cotte ma soprattutto di crude – appunta lapidario in agenda, penna alla mano: “oggi 24 febbraio è la fine del giornalismo italiano”. Quello che in altri tempi avrebbe occupato nel giornale locale un trafiletto di spalla, ora diventa un caso nazionale.

Si chiedeva Matteo: “come fa un vocabolo, una parola che mi piace, finire nel vocabolario?”. A rispondergli ora con un “deve essere utilizzata in una pubblicità per auto” o “deve rimbalzare nei social grazie a un tweet di Renzi”, un po’ – piccoli, ma soprattutto grandi – questa fiaba ci può invitare a pensare.

3 Commenti

  1. Lorenzo scrive:

    C’era una volta la fantasia, ora c’è internet.

  2. Paola scrive:

    Articolo ben fatto ed interessante

  3. carla scrive:

    bell’articolo, grazie!! e bella storia. Ne ho vissuta una simile anni fa, quando i social non c’erano. Mio nipote Giulio, ora ventenne, a 5 anni una sera di luna piena mi disse: zia vieni a vedere il cielo, è tutto luciato!! Mi parve una aggettivo bellissimo, meraviglia della fantasia infantile e ancora lo uso, fra me e me, nelle notti di luna piena.

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