Messinscena [mes-sin-scè-na] o messa in scena
1. L’insieme di ciò che serve ad allestire uno spettacolo teatrale. Sinonimi: allestimento, regia, direzione.
2. L’insieme di ciò che appare sulla scena durante uno spettacolo (costumi, luci, arredi)
3. L’insieme degli atteggiamenti falsi e ipocriti con cui si vuole rendere credibile qualcosa. “E’ solo una messinscena”. Sinonimi: simulazione, finzione.

La domenica della maggior parte degli italiani è stata scandita dalla messa, almeno nell’infanzia. Ne abbiamo avuto prova sabato sera. La reazione del pubblico all’ultimo spettacolo di Giulio Costa è stata tutto tranne che apatica. Scambio di occhiate imbarazzate, colpi di tosse insofferenti per un déjà vu che è sempre lì, le parole della messa stampate nel cervello come se avessimo ancora nove anni, tirati per il cappotto dalla nonna alla messa delle undici.

Quella di sabato sera non era una vera messa. Non solo perché i credenti erano attori e il prete era Marco Sgarbi, ma perché l’idea della messa era solo un pretesto per parlare di altro. La stessa identica scena avrebbe potuto svolgersi in una scuola, in un’aula universitaria o un un tribunale. Il significato sarebbe rimasto lo stesso. E qual è questo significato, sempre ammesso che esista una sola interpretazione (e ovviamente non lo possiamo ammettere)?

Vediamo di capirci qualcosa. Cosa succede durante la Messa in Scena? (attenzione, seguono spoiler).

Sul palco non palco ci sono ventidue persone. Sono i fedeli che assistono alla messa. I cappotti sulla sedia sembrano persone franate l’una sull’altra. Recitano il Credo in automatico, come zombie pilotati dall’alto (secondo alcuni), con fin troppa enfasi e devozione (secondo altri). In tasca scuotono le monetine per le offerte. Con lo sguardo seguono il prete che non si vede ma c’è. Si alzano al momento giusto, si inginocchiano, si mettono in fila per ricevere il corpo di Cristo. Sono normali, terribilmente normali. Alcuni vorrebbero essere altrove, altri sono devoti e soddisfatti, come se quella fosse l’unica cosa giusta da fare. Alla fine della messa i credenti si rivestono e se ne vanno.

Il palco non palco è di nuovo vuoto. Entra il prete. È un uomo con una camicia azzurra. Sottobraccio porta due assi di legno. E’ l’altare fai da te, da montare a colpi di martello. L’allestimento può cominciare. Il prete sfila una pagnotta da un sacchetto da fornaio, si soffia il naso, si porta la tovaglia d’altare al naso come faceva la mamma con le nostre magliette puzzolenti, appoggia il pane per terra, estrae una bottiglietta d’acqua, il vino, alita sul vassoio, lo ripulisce con uno straccio. L’altare è pronto, la Bibbia c’è, la messa può cominciare.

È il momento delle letture. Il prete legge, guarda il pubblico, tiene il filo con un dito sulla pagina. Dopo qualche minuto qualcosa non va. Le letture sono terminate, è il momento dell’Omelia. Il nostro prete è umano, troppo umano, si ferma e guarda a lungo il pubblico in silenzio. Il silenzio è qualcosa di intimo e ostile, come un braccio di ferro. Vorrebbe continuare, raccontare qualcosa ma la sua faccia sembra dire e cosa gli dico io?

Foto di Daniele Mantovani

A cosa abbiamo assistito? All’allestimento e alla messa in scena di una cerimonia religiosa, di un rito sacro.  Cos’è un rito? Un insieme di atti che deve essere eseguito secondo norme rigorosamente codificate. Se la mettiamo in questi termini la messa non è il solo ed unico rito. Anche un congresso è un rito: ci sono le persone in sala che seguono delle regole precise (ascoltare e non interrompere) e quelle sul palco che parlano. Anche un concerto è un rito: lì il verbo è la partitura. Anche il tribunale è un rito: attraverso un codice si interpreta un fatto. Proprio per questo la scelta di mettere in scena la messa è solo un pretesto per parlare di altro. La stessa scena poteva svolgersi in una classe. Immaginiamo un professore leggere Leopardi di fronte ad una classe di studenti annoiati. Quello che gli preme davvero raccontare è quello che lui stesso ha imparato da Leopardi, le cose che ha maturato durante quelle letture.  Gli studenti, però, sbadigliano, ci sono e non ci sono.  Se non c’è nessuno ad ascoltare che senso ha andare avanti?

Forse il prete in camicia azzurra si è zittito perché ha sentito una parte del suo pubblico chiudersi, annoiarsi, assentarsi. C’è solo una veste che distingue il prete dagli altri, poi c’è il mistero, certo. Dietro i paramenti, però, c’è una persona normale, può essere un politico, un filosofo, un letterato, uno che ha qualcosa da dire, che vuole trasmettere un messaggio a persone che a volte ci sono, a volte sono fantasmi. Durante la lettura il prete finisce per non trovare più una corrispondenza con il presente e quindi non ha più senso comunicare con gli altri. All’improvviso vengono a cadere tutte le sicurezze e non si è più sicuri sulle fonti da cui attingere per interpretare la realtà.

Un’ultima osservazione. Quanto conta il ruolo del sacro in questo spettacolo? Per il credente sacro è rivestire un oggetto di un significato, di un valore che viene dall’alto, dall’autorità del prete, e dal basso, tra gli stessi fedeli di una comunità, nel momento in cui partecipano ad un’esperienza collettiva. E questo senso del sacro viene da un’esigenza molto umana, quella di voler appartenere a qualcosa, alla voglia di esprimersi in un’unità. Per questo motivo gli attori che hanno impersonato i fedeli hanno sentito davvero qualcosa di sacro, lo spirito di gruppo che li ha fatti sentire una sola persona.

Messa in Scena parla di sacro, ma non solo in senso religioso. Ogni gesto può essere sacro perché nasce dall’esigenza umana di voler creare qualcosa di più attraverso il proprio lavoro e dal bisogno di simbolizzare la realtà. Abbiamo tutti bisogno di simboli per esistere.

Marco Sgarbi prete non è altro che un uomo che parla e pensa tra sé e sé : speriamo che ascoltino.

Messa in Scena sarà replicato venerdì 18 e sabato 19 Dicembre ore 21 al Teatro Ferrara Off

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