Ferrara punk. Chi riesce a immaginarla? Non è mica Londra, non è mica Milano. Non è nemmeno Bologna. C’è poco traffico, pochissima varietà umana. Certo ci sono oggi, come ci sono sempre state, le signore strette nei cappotti, assieme agli operai che escono dalle fabbriche, assieme ai ragazzini con i capelli ordinati e la racchetta da tennis nella borsa sportiva. Ma i punk? Le strade ferraresi non sembrano adatte, troppo familiari, condite dall’alba al tramonto da sorridenti buongiorno, salve e buonasera, cenni del capo, saluti frettolosi. Eppure Ferrara è stata punk, anche se probabilmente allora non se n’è accorta e se ne sta accorgendo ora.

É successo nei primissimi anni Ottanta, quando sulle panchine dei giardini dell’ex Standa, vicino al Castello, iniziarono a ritrovarsi una decina di adolescenti insofferenti, poco propensi a lasciarsi scivolare gli anni addosso per arrivare incolumi e preparati alla pensione. Fu una sveltina, un momento breve ma intenso, se si considera che oggi uno dei gruppi musicali che si formò su quelle stesse panchine – gli Impact – viene celebrato e ricordato per aver aperto la strada di un genere come l’hardcore.

Ma che senso ha oggi, a distanza di quasi quarant’anni, interessarsi a quel periodo? Come mai quella stagione, fugace e deprecata, si è trasformata in un argomento da approfondire? Perché persone che fino all’altro ieri hanno completamente ignorato quel pezzetto di storia italiana improvvisamente hanno scoperto di esserne attratte?
Che la curiosità sia diffusa è un dato di fatto. Basti pensare al tam tam che ha suscitato la proiezione del documentario “Italian Punk Hard Core 1980 – 1989”, organizzata venerdì scorso al Centro sociale La Resistenza. Capire che cosa c’è alla base della curiosità è tutt’altro che semplice, anche se una chiacchierata con Gigo e Diego, storici membri degli Impact, qualche spunto riesce a darlo.

Innanzitutto una specificazione per i non addetti ai lavori. In due parole la differenza tra punk e hardcore?

Il punk è arrivato in Italia nel ’77, con i gruppi inglesi più famosi, che si distinguevano per l’abbigliamento e l’atteggiamento estremo. L’hardcore è stata un’evoluzione del genere, è arrivato dagli Stati Uniti negli anni Ottanta. La musica era ancora più veloce, i testi più incazzati, era anche più politicizzato rispetto alla provocazione pura. Anche l’aspetto si era trasformato, meno violento.

Come avete conosciuto il punk?  

Sentimmo per la prima volta parlare di punk da un tizio totalmente tossico che chiameremo X, molto più vecchio di noi, che negli Settanta era stato a Londra ed era tornato infettato da questa cosa nuova. All’epoca non c’erano molti canali per informarsi e forse anche questo ha aiutato a creare un nuovo genere, perché nemmeno noi sapevamo bene cosa fosse. Ricerca e fantasia furono fondamentali. Quello che ti arrivava da fuori erano dei flash: un disco con la fotografia di uno con i capelli strani, la copertina di un disco con uno che vomita. Beccavamo anche dei pacchi mostruosi. Credo che l’innesco sia stato così un po’ dappertutto. Tutte queste cose ovviamente non passavano in televisione. L’unica trasmissione interessante era Odeon, sulla Rai, dove venivano presentate le stranezze che succedevano altrove. Tantissimi ragazzi scoprivano le cose così, lo skateboard ad esempio è arrivato in Italia grazie a quel programma. Noi per sapere cosa stava succedendo in giro leggevamo Rockerilla e Ciao 2001, che ogni tanto qualche servizio musicale lo pubblicava. I vinili li cercavamo al Delta Sound, il negozio in via Bersaglieri del Po che poi è diventato Pistelli e Bartolucci. Il gestore ci conosceva, quando arrivava qualcosa che avrebbe potuto interessarci ce lo segnalava.

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Dal sito lovehate80.it

Vi ho ritrovato nelle pagine di “Costretti a sanguinare”, il romanzo autobiografico scritto da Marco Philopat nel 1997, dove si racconta genesi e peculiarità del movimento punk italiano. Philopat descrive un concerto organizzato sotto lo stadio. Cos’era quel posto?

Ferrara in quegli anni era veramente una città diversa, il centro era deserto. Trovavi gente un po’ alternativa, new wave o dark, giusto al Red Lion, un pub che adesso non c’è più, stava vicino al cinema Rivoli. Noi stavamo in alcuni locali sotto lo stadio, sotto la curva ovest. Quel posto era la nostra base, si chiamava Centro giovanile Via Ortigara. Eravamo riusciti a entrare con il benestare degli addetti comunali. Il responsabile della nostra banda era un ragazzo chiamato Ciccio, era il nostro referente ufficiale. Cercavamo di rompere i coglioni il meno possibile. Organizzavamo concerti, sono passati da lì tutti i maggiori gruppi hardcore dell’epoca, italiani ma anche tanti stranieri. La musica non era facile da digerire ma veniva tantissima gente agli eventi, anche ragazzi dall’aspetto normale, che di punk avevano poco o niente. Lo spazio funzionava anche come sala prove.

C’erano altri gruppi che localmente facevano punk o hardcore?  

All’inizio c’erano i Service, che facevano una specie di protopunk, abbastanza mischiato col versante mod, e i Disarmo Totale, il gruppo dove prima suonava Diego. A Poggio Renatico c’erano gli Apeiron Overdose. Bisogna dire che da un anno all’altro cambiava tutto, vivevamo in una dimensione temporale abbastanza strana. Quando abbiamo iniziato noi il punk stava già morendo. Aveva tre o quattro anni ma lo consideravamo roba vecchia. Oltre agli Impact, suonavano hardcore anche i Liberation Life, ma hanno fatto qualche data e poi sono scomparsi. Noi probabilmente avremmo fatto la stessa fine se non avessimo deciso di spostarci a Bologna.

Come mai? Cosa successe?

Perché rappresentava un mondo completamente diverso. Adesso è tutto più uniformato, i canali di comunicazione sono gli stessi per tutti. Quella volta stare a Bologna significava mettersi in relazione con cose che a Ferrara non esistevano. Il ritrovo era davanti al Disco d’oro, per conoscere gente, trovare contatti. Ci siamo fatti conoscere partendo da lì e abbiamo girato tantissimo. Soprattutto Pisa, Milano e Roma.

Come eravate considerati allora nella vostra città?

Tolto qualche scontro fisico con le forze dell’ordine, la città non si è praticamente accorta di noi. L’estetica creava sicuramente del distacco, in tanti credo avessero paura delle borchie, delle creste, ma eravamo una nicchia di una nicchia. Paradossalmente abbiamo ricevuto molti più riconoscimenti negli ultimi anni.

Dal sito impact-hc80.com

Dal sito impact-hc80.com

Quello che maggiormente colpisce, leggendo le fanzine di quel periodo, è la grandissima consapevolezza. Da cosa derivava?  

Sicuramente siamo stati l’espressione di un momento: nella musica, nei testi, nelle cose che ci stampavamo addosso. Una forma di ribellione autodistruttiva, che prendeva le distanze dalla società ma allo stesso tempo ne diventava lo specchio. Siamo stati il prodotto di un periodo storico, e da un punto di vista generazionale c’era una consapevolezza, anche un po’istintiva, che oggi si fatica a ritrovare. In Italia c’erano gruppi che si chiamavano Loggia P2, oppure Finestra Pinelli, ed erano formati da sedicenni. Sicuramente sentivamo come un peso i movimenti del ’77, peggio ancora quelli dei Sessantottini, che avrebbero voluto plasmarci. La consapevolezza non veniva da quelle esperienze ma dall’esser cresciuti guardando alla televisione le immagini del sequestro Moro, della strage di Piazza Fontana. Piacesse o no. Le bombe non potevano non entrarti dentro. Abbiamo messo in discussione tutto, ma era un tutto che conoscevamo. La memoria storica esisteva ancora. Cosa ci arrivava dai media? Un cazzo. Eppure certe cose le sapevi. L’impressione è che ora siano a disposizione tutte le informazioni, tranne quelle importanti.

La vostra storia, come gruppo, è stata brevissima. Come mai?

Si era chiusa un’epoca, già nel 1986 la scena era radicalmente cambiata. I gruppi che rappresentavano l’ambiente punk vissero varie crisi e derive. E da lì non se ne parlò più per vent’anni almeno.

Perché nel 2006  avete deciso di tornare a suonare assieme?

La reunion è stata organizzata proprio dopo aver incontrato gli autori del documentario, i ragazzi  di Love Hate 80. Era il 2005 e non avevano ancora in mente il progetto video. Ci avevano contattato perché volevano stampare un volume che raccogliesse tutte le uscite di T.V.O.R (l’acronimo sta per Teste Vuote Ossa Rotte, ndr). Era la fanzine più famosa, volevano fare una sorta di edizione rilegata. Per questo si erano messi a girare per l’italia e a intervistare i vari personaggi della vecchia scena hardcore. L’idea della reunion è arrivata dopo l’intervista fatta con loro. Ci ha sopreso vedere quanto interesse suscitava qualcosa che noi ormai davamo per morto e sepolto. La risposta che abbiamo trovato ai concerti prima non s’era mai vista.

Dal sito impact-hc80.com

Da cosa dipende secondo voi questo interesse?

In realtà dovresti chiederlo ai tantissimi ragazzi che oggi suonano lo stesso genere. Per noi è un po’ strano. Facciamo un parallelo: trentacinque anni prima che noi formassimo gli Impact era il 1955. Alla radio c’era Elvis, c’era Adriano Celentano. Ecco, per noi a sedici anni era impensabile mettersi a suonare quelle cose. Non sappiamo perchè oggi si continui su una strada intrapresa trentacinque anni fa, sicuramente è stata una strada di rottura ma non può più esserlo dopo così tanto tempo. L’impressione che abbiamo è che una certa attitudine non sia scomparsa, ma che semplicemente si trovi altrove. Sta, come sempre, dove non si accettano etichette o imposizioni. Anche il punk è stato omologato, digerito dal sistema. Era un ambiente che frequentavi solo se eri disposto a rompere radicalmente con il contesto, anche se in un modo un po’ naif, e compromettere tutto ciò che ti riguardava. Oggi andare a un concerto punk è solo una tra le varie opzioni per sfogarsi il sabato sera, come andare a vedere la partita. L’approccio esistenziale è stato totalmente assorbito, fagocitato. Certo, chi va ai concerti spesso lo fa perché avverte il bisogno di mettersi in discussione, ma senza mettersi in pericolo.

E a quale esigenza credete risponda la curiosità –  diffusa in modo trasversale, non solo tra appassionati di hardcore – per gli esordi di quella scena?

Probabilmente, ma è solo un’opinione, la curiosità c’è perché la trasgressione interessa a tutti. Adesso nessuno ti bolla per una maglietta o per un paio di scarpe, i capelli verdi se li fanno anche le signore anziane, nei negozi del centro  trovi i chiodi con le borchie. All’epoca chi sceglieva il punk faceva una scelta totalizzante, mentre oggi è tutto molto più codificato e accettato.

Per chi volesse saperne di più, la storia completa degli Impact si può leggere nel libro “Realtà mutabili”, pubblicato nel 2001 da Linea Bn. Oltre a ricordi e aneddoti vari – come quello del tizio di nome Jeff che lasciò gli Impact perché “voleva sfondare”, e dopo qualche anno iniziò a farsi chiamare Neffa – vi si trovano raccolte anche le uscite delle due fanzine autoprodotte a Ferrara, “Pudore Selvaggio” e “Fanghiglia Cristiana”. Purtroppo il volume non è a disposizione nelle biblioteche comunali (un appello ai bibliotecari: compratelo e catalogatelo, si tratta pur sempre di storia locale!) ma si può ordinare all’indirizzo janz64@gmail.com

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