È un mercoledì mattina di Ottobre a Londra, mi sveglio presto, troppo presto per le mie abitudini, sono appena le 8 e mezza e queste maledette tende fanno passare la luce. Ho ancora sonno, Londra è rumorosa, le sirene delle ambulanze e della polizia in lontananza si susseguono per tutta notte ed io, abituata a vivere al quinto piano a Ferrara, non faccio che svegliarmi di continuo.

“Queste tende insopportabili” borbotto tra me e me mentre le apro e vedo trasparire al di là dei vetri inumiditi dalla condensa del termo sottostante, una splendida giornata di sole. Oggi è una giornata importante, forse la giornata più importante del periodo in cui devo starmene qui.

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Metto le uova in padella con una fetta di bacon, prendo il succo “mango-passion fruit and orange” (un mix che non vedrebbe mai la luce in Italia) e mi vesto in fretta. Scappo fuori, mi godo il sole lungo la strada, gli impegni di oggi devono essere concentrati tutti al mattino. La pioggia ha lasciato il suo strascico di pozzanghere e umido sul grigio del cemento dei marciapiedi londinesi, solo qualche albero colorato spunta tra le villette vittoriane e questi alberi donano la stessa sensazione di una spruzzata di polvere di colore gettata al vento da una mano nascosta. La metro è sempre la metro con il suo classico odore da metro, con il classico personaggio che dorme in metro a qualsiasi ora, con la classica voce che mi ricorda di fare attenzione alla distanza tra il treno e la piattaforma. Direzione Camden, le ore passano, gli impegni si susseguono e la mia ansia cresce. Comincio ad osservare l’orologio sempre più di frequente.

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Ore 16.20. Arrivata. Tutto come da copione. Dato che lo conosco fin troppo bene so anche che avrò altri 20 minuti da aspettare. Mi faccio un giro e mi prendo qualcosa da mangiare.

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Ore 17.00 attendo sotto l’insegna Barclay con il mio sandwich indiano ripieno di salsa piccante. Eccola. La riconoscerei tra un milione di persone. Non posso che ridere di gusto nel vedere che mi vede e ci avviciniamo in fretta entrambe saltellando come avessimo sei anni. Già, sei anni.

Lei è Aisha, la mia amica storica, la mia amica di sempre, da sempre. Lei mi conosce da quando ero in prima elementare e lei era in seconda. Lei mi ha insegnato tantissime cose. Lei mi ha mostrato che le persone possono essere vere. Pure. Limpide. Sincere. Lei mi ha fatto imparare che esistono persone che non mentono mai. Su cui si può contare sempre. Lei. Poi tutto quello che mi ha insegnato il resto del mondo è un’altra storia… Ma con lei so che posso essere sempre me stessa, posso abbassare tutte le difese, posso dirle qualunque cosa che lei sarà con me.

“Tesoro sono passati quasi 5 mesi!! Che fine avevi fatto?” e mi stringe come quando avevo 6 anni. “Dai andiamo, fa freddo qua, andiamo a prendere un caffe!” mi dice, mi prende sottobraccio  e mi trascina via. “Ho tante cose da raccontarti! Neanche immagini!”.  Mi parla, mi racconta di tutto e tutti, delle sue novità, del nuovo lavoro, di sua mamma, di sua sorella Suleima che ha cambiato idea su che facoltà fare, scherziamo, parliamo, ci ascoltiamo, come facciamo da sempre. Il sole cala, i caffè sono finiti da un bel po’ e non so bene come ma ci mettiamo a parlare di come si sente lei.

Aisha è una bellissima ragazza nata in Somalia, musulmana, la cui famiglia si è trasferita in Italia, a Ferrara quando lei aveva circa 5 anni. Io la conosco da poco dopo. Conosco tutti, da sempre: suo papà ingegnere in Somalia che ha fatto l’imbianchino per diversi anni studiando la sera per farsi riconoscere la laurea, sua mamma che mi ha sempre obbligato a darle retta come facevano tutti i suoi figli, Zeinab, la sorella maggiore e poi quelli che io definisco i “piccoli” ovvero i 3 bimbi nati a Ferrara, che ora sono diventati maggiorenni pure loro. “Cavolo Aisha io ricordo quando portavo Sule per mano perché era così piccola che avevo paura cadesse! com’è possibile? E Hamed ha la patente?” “Guarda!” e mi fa vedere il cellulare. Hamed ha la barba. Mette le lenti al posto degli occhiali e non ha più quella faccina tonda che lo rendeva così simpatico. Fa il figo nella foto.

“Hai seguito la famiglia quando ti sei trasferita a Londra un anno fa, ma come ti senti?”
“Bene. Normale. Tu non puoi capirlo ma io ero sempre l’unica ragazza di colore, sempre. E sempre l’unica musulmana.”

“Beh lo so, ti vedevo. Ti ho sempre visto, ti ho vista crescere. Non ci sono mai stati problemi…”
“Certo, nessuno mi ha mai detto o fatto nulla in tanti anni. Crescere a Ferrara è stato perfetto, mi sono sentita davvero uguale, non mi ponevo nemmeno il problema, noi eravamo ragazzi intelligenti anche se eravamo i primi ad avere compagni di classe stranieri. Oggi è normale. All’epoca no.”

È vero. Mi ricordo che alle elementari era l’unica a portare il velo ma io le ho iniziato a parlare una volta in giardino perché lei aveva il succo di frutta e io no. Al velo non ci ho minimamente pensato. La storia del succo di frutta in effetti non gliel’ho mai detta, come non le ho mai detto che una volta le ho spacciato per manzo della carne di maiale. Non avevo altro in casa e avevamo fame…

“Gli anni a Ferrara sono stati bellissimi, lì sono nati i miei fratelli, mio papà ha finito gli esami e ha ripreso a fare l’ingegnere, io avevo tutti gli amici, le prime cotte per i ragazzi, gli studi. La classica vita da liceale.”

“Poi?”
“Poi ci siamo trasferiti a Milano per il lavoro di mio padre e ho iniziato giurisprudenza là. Milano è una città enorme rispetto a Ferrara e mi aspettavo che se non avevo avuto problemi in quattordici anni a Ferrara non ne avrei di certo avuti là. Mi sbagliavo. Vedevo gli sguardi delle persone, sentivo a pelle che mi accettavano ma mi consideravano diversa, non ero una di loro mentre con te, con voi, ero come se fossi vostra sorella.”

Sua mamma mi ha sempre trattato come parte della famiglia, ricordo dei pranzi in cui si mangiavano tortellini con ricotta e spinaci con sua mamma che mi sgridava se non finivo tutto il piatto o una loro zia che parla solo somalo che ha voluto conoscermi di persona alla laurea di Zeinab perché aveva sentito parlare tanto di me.

“Un vigile a Milano mi ha fermato un giorno mentre ero in auto per un controllo. Mi ha detto di dargli patente, libretto e permesso di soggiorno. Quando ho detto che io il soggiorno non l’avevo si è allarmato, mi ha subito chiesto cosa ci facessi in Italia senza permesso, chiedendomi se sapessi che stavo infrangendo la legge. Mi stavo arrabbiando, io che studiavo giurisprudenza dovevo sentirmi ripetere queste leggi solo perché avevo il velo in testa? Quanti pregiudizi c’erano nella testa di quel vigile? Gli ho spiegato con tutta la calma che avevo in corpo che il permesso non l’avevo perché sono cittadina italiana, esattamente come lui. Come risposta mi sono ritrovata una contravvenzione per un fanalino bruciato. Eh va beh, era bruciato davvero, non me n’ero accorta!” Sorride.

Il discorso mi sta prendendo, voglio sapere come va a finire.

“Per non dirti di tutti i colloqui di lavoro! Quando mi sentivano al telefono pensavano che magari avessi un nome strano ma fossi italiana ma poi quando mi presentavo di persona capivo che non avrei avuto chance. Sai, mia madre una volta era rimasta bloccata con la schiena e aveva bisogno di punture, avevo trovato un’infermiera a domicilio che, quando ho aperto la porta di casa per farla entrare, si è giustificata con “ah ma io non avevo capito! Scusa non me la sento” per poi scappare via.. Dopo questi episodi ho iniziato a prendere in considerazione la proposta di mia madre di trasferirci tutti qui. Io all’inizio non volevo, l’Italia è la mia casa, qui mi sarei sentita come tutti questi ragazzi che vengono qui per trovare lavoro e ben pochi non rimpiangono casa. Alla fine, per quanto rimandassi, per ultima, mi sono trasferita anche io. Vedo che qui è la multi-culturalità è la regola, nessuno fa caso alla mia religione, che io sia musulmana qui ha la stessa importanza del colore del mio smalto.”

“Capisco, è sicuramente tutto giusto quello che dici… ma ti piace qui?”
“Si, anche se devo ammettere che se dovessi avere dei figli non li vorrei crescere qui ma a Ferrara dove tutti sono ancora umani, dove la gente è disposta a conoscerti per come sei dentro. Vorrei per i miei figli un’infanzia come l’ho avuta io.”

Il tempo passa, è quasi ora di cena e non ci siamo mosse dal cafè.

“Vuoi venire a cena? Non ho detto a mamma che ci sei altrimenti si metteva a cucinare 4 giorni fa ma se ti vede poi lo sai che è la persona più contenta del mondo!”.

Avevo un impegno per cena quindi ho dovuto a malincuore dire di no anche se tornado indietro, in metro, ho ripensato alla mamma di Aisha e ai suoi abbracci esagerati, al papà che finalmente progetta pale eoliche come aveva sempre voluto, ai fratelli e alla sorelle che ho visto nascere, che ho tenuto per mano quando erano piccoli, a tutte le cose assurde strane che Aisha sa di me e che ha sempre accettato, a quanto ridiamo assieme, a come mi faccia sentire leggera quando parlo con lei, a come mi possa fidare ciecamente di lei. Da sempre.

Ore 20.00. La metro si ferma, è la mia fermata, una fila umana di cappotti neri, soprabiti eleganti e ventiquattrore scende, tutti vanno verso casa, la testa bassa, le scarpe umidicce. Mi ricorda una scena di Metropolis in versione moderna.

Esco, il telefono riprende la rete. Mi arriva una foto. Aisha era decisamente l’appuntamento più importante della settimana.

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Tutte le foto sono di Giulia Paratelli

2 Commenti

  1. Lucia Livatino scrive:

    Toccante. Bellissimo. Condivido. Scrive proprio bene, Giulia! Complimenti e buona giornata a tutti quelli di Listonemag. Siete la mia droga quotidiana.

  2. Giulia Paratelli scrive:

    Grazie Lucia delle belle parole, non essendo io una redattrice questo complimento vale doppio! Grazie!

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