Il primo si muoveva a New York ed era un detective della squadra omicidi. Il secondo agiva in qualità di investigatore privato nella metropoli immaginaria di Metronord. Ad accomunare le avventure, fra gli anni Ottanta e Duemila, di Nick Raider e, negli anni Novanta, di Lenin, non è solo l’universo di carta sul quale i due fumetti sono stati rappresentati, ma anche la matita che ne ha disegnato i tratti. Fra i disegnatori che hanno firmato alcuni albi dei due personaggi, infatti, c’è stato anche spazio per il ferrarese Marco Artioli. Un’esperienza tuttavia interrotta presto e che ormai da tempo lo ha visto approdare al mondo della grafica pubblicitaria. Lo abbiamo incontrato e con lui abbiamo scambiato quattro chiacchiere.

Ci racconti quando è nata la tua passione per il disegno?
«Quella per il disegno è una passione che ho sempre avuto. Fin dai tempi in cui da bambino registravo i cartoni animati giapponesi e, una volta riavvolto il nastro, fermavo l’immagine per potere studiare l’anatomia dei personaggi».

Hai seguito da subito un percorso specifico di studi per perfezionarti?
«In realtà no. Dal punto di vista della formazione io, dopo avere terminato il liceo scientifico, mi sono dedicato a studi giuridici. Però ho sempre coltivato un interesse per il disegno. Fino all’università disegnavo per me stesso».

Quando hai deciso di approcciarti professionalmente al mondo del fumetto?
«Quando sono andato a vedere una mostra di disegni di Nicola Mari, allestita nella chiesetta di San Romano. Di lì a poco, sono andato a seguire un suo corso serale, tenuto da lui insieme al disegnatore Germano Bonazzi, e promosso dall’Arci. Parliamo dell’inizio degli anni Novanta».

Quanto tempo è durato il corso?
«Ricordo che durò circa tre mesi. Mi sembra che fossimo circa una quindicina, noi partecipanti. Fu un’esperienza utile perché ci diede un’infarinatura su quello che sarebbe potuto essere un futuro lavoro. Oltre ad aspetti tecnici legati al disegno, alle luci e alle ombre, ci venne fatto vedere come funzionava il rapporto fra sceneggiatori e disegnatori».

Foto di Giacomo Brini

Quale altro ricordo conservi di quel corso?
«Al di là delle nozioni acquisite, ho avuto l’occasione di conoscere due disegnatori come Germano e Nicola. Inoltre, fra noi allievi c’era anche Roberto Zaghi».

Poco tempo dopo hai frequentato lo studio di Germano?
«Sì, ricordo che anche Roberto si era già trasferito nello studio in via Vegri, dove c’era pure Nicola. Peraltro Roberto era da poco riuscito a entrare alla Bonelli. Allora mi era scattata la molla, ma ero ancora sballottato fra la mia passione e gli studi universitari. Così, dopo essermi dedicato ad alcuni esami, sono tornato a disegnare e ho ricominciato a frequentare lo studio di Germano, che ci faceva da guida».

Come definiresti il tuo stile?
«Io non ero propriamente bonelliano. Il mio stile richiamava più l’universo americano della Marvel. Con fatica sono riuscito ad avvicinarmi al fumetto iperrealistico. Credo comunque che il fumetto realistico rappresenti la base. Una volta assimilato, si può disegnare di tutto».

Come sei arrivato alle tue esperienze professionali?
«Quando frequentavo lo studio, realizzavo tavole intanto per me stesso, preferendo ritrarre soggetti fantastici. Ho poi spedito alcune tavole di prova a una piccola casa editrice di Pisa che si chiamava Marco Editore e che pubblicava un fumetto, dal nome Lenin. Un personaggio di fantasia che faceva l’investigatore privato e si muoveva in uno scenario postapocalittico. I miei disegni sono piaciuti e sono stato chiamato a realizzare due numeri del fumetto. Dal punto di vista dello stile, ero ancora lontano da quello bonelliano, ma mi stavo avvicinando».

Quando è arrivato l’approccio alla Bonelli?
«Dopo aver realizzato gli albi di Lenin, decisi di presentare alcune tavole di prova a Milano, alla Bonelli. Feci vedere i miei lavori a Mauro Marcheselli e lui mi disse che c’era bisogno di un disegnatore per Magico Vento, il personaggio creato da Gianfranco Manfredi. Un albo difficile da realizzare, caratterizzato da un ambientazione western e horror, e che richiedeva una particolare documentazione, dai paesaggi all’abbigliamento. Presentai i miei disegni di prova allo sceneggiatore Renato Queirolo. Non fui preso. In seguito disegnai alcune tavole per Nick Raider, il fumetto poliziesco, e andò bene».

Cosa ricordi di quell’esperienza?
«Ricordo il giorno in cui mi arrivò la notizia dell’assunzione. Dopo circa una settimana mi spedirono la sceneggiatura della storia che avrei dovuto disegnare. Il titolo dell’albo di Nick Raider che realizzai era ‘Giochi letali’».

Poi il rapporto si interruppe?
«Avevo paura per il futuro e mi preoccupava il calo delle vendite dei fumetti dei primi anni del duemila».

Che tipo di lavoro è quello del fumettista?
«Un mestiere antico, che s’impara in bottega, per quanto siano importanti le scuole di fumetto, e dove si lavora a cottimo».

Che rapporto c’è con la tecnologia?
«Le tecnologie, da tanti punti di vista, aiutano il lavoro. Quando ho cominciato a disegnare, in caso di errore nella realizzazione di una vignetta, potevo scansionare e correggere. Sono uno strumento accessorio».

Oggi sei ancora un disegnatore?
«In un certo senso, ho appeso la matita al chiodo. Oggi disegno per me. Però sono ancora un lettore di fumetti».

Cosa pensi del mondo dei fumetti di adesso?
«Se guardo all’universo statunitense, penso al legame fortissimo con il cinema che, con i suoi effetti speciali, ha saputo sfruttare i ‘characters’ dell’immaginario collettivo».

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