di Valentina Mantovani Sarti

Di ritorno verso Ferrara, giovedì sera. Sul trenino regionale Bologna-Ferrara, lento ed inesorabile, combattendo contro la chiusura di palpebra che mi affligge da anni, scruto i visi dei miei compagni passeggeri.
Giovani studenti che tra una decina di ore probabilmente saranno sullo stesso treno, una anziana signora con i lineamenti asiatici che si destreggia da professionista tra due smartphone, un elegantissimo signore in giacca e cravatta, capello argenteo che gioca con un pezzo di carta tra le mani.

Ognuno di loro custodisce una splendida storia che, se solo ne avessi il tempo e le forze, desidererei raccontare, immortalare e tramandare. Ma il tempo è tiranno, qualcuno diceva, al liceo forse.

Domani inizierà il festival di Internazionale e quest’anno ho deciso di non viverlo in prima persona, ma bensì di cercare di capire un po’ come funziona il dietro le quinte di una parte fondamentale del giornale: i reportage fotografici.
Ebbene sì, mi sono iscritta ad uno dei famosi workshop di Internazionale per entrare nel magico mondo del fotoreportage, raccontare storie attraverso le immagini.

Venerdì ore 7:30, suona la sveglia. Si inizia.
Mentre prendo il caffè penso a cosa possa significare essere un fotoreporter, viaggiare nelle zone colpite dalla guerra o essere testimoni di tragedie come calamità naturali, viaggi della speranza da paesi come la Siria verso la splendente Europa.
Non riesco lontanamente ad immaginare come possa essere lavorare attorniati da una tale sofferenza e nonostante ciò mantenere la lucidità e portare a termine il lavoro.
Ma una sola foto può a volte essere molto più di una mera immagine, può diventare un potente mezzo di denuncia e mostrare l’orrore che ci circonda meglio di un migliaio di parole.

Arrivo a Giurisprudenza, affannata, procedo alla registrazione ed entro in classe.
Beh ammetto che era da un po’ che non entravo, da studente, in un’aula universitaria. Mi coglie sempre quel lieve pizzicorino alla materia grigia, compagno degli anni universitari che furono, nella speranza di assistere ad una lezione che mi faccia andare in brodo di giuggiole.

Ed è stato così.
I tre giorni di workshop assieme al fotoreporter francese Olivier Jobard hanno soddisfatto la mia brama di conoscenza sull’argomento e hanno aperto ulteriori canali di interesse.
Per tre giorni ho vissuto dentro la testa di un fotoreporter.
Ho visto come lavorano le sue sinapsi, come si decide quale storia raccontare e come raccontarla. La storia di Kingsley, ragazzo nigeriano che intraprende un viaggio attraverso l’Africa per raggiungere la Francia, la storia di tre ragazzi afgani e della loro visita in Occidente e quella di una famiglia siriana “middle-class” in viaggio da Kos alla Svezia.
Ognuna di queste storie rispecchia esattamente cosa significhi essere un fotoreporter e spiega perché quando vediamo queste foto su Internazionale o su altri giornali ci scatenano tante emozioni.

Foto di Valentina Mantovani Sarti

Essere un fotoreporter e scegliere la macchina fotografica come tua arma di conoscenza di massa significa essere un cantore di storie costretto a riassumere in uno spazio limitato dai bordi della foto una quantità immensa di sensazioni e informazioni.
Ciò che resta aldifuori del frame dello scatto non esiste.

Ciò che non decidi di riprendere attraverso il tuo obiettivo, forse non avrà mai l’opportunità di essere visto.
La scelta stessa della storia da raccontare è una responsabilità enorme e per questo ancora più difficile da trasmettere a una trentina di studenti.
All’interno della vicenda che desideri mostrare, ti devi saper muovere come un testimone esterno ai fatti, lo sfondo che non deve intralciare la naturale evoluzione degli eventi. Ma allo stesso modo devi sapere quando gli eventi superano il limite e intervenire per aiutare i tuoi personaggi, i tuoi simili.
La storia che racconterai attraversa prima il campo visivo dei tuoi occhi per poi rifrangersi sull’obiettivo fotografico, ed è proprio la prima parte che determina il fotoreporter.

Scegliere cosa raccontare con le tue immagini, i migranti, il festival di Internazionale, il matrimonio del tuo migliore amico, se vuoi essere un buon fotoreporter, deve nascere prima nella tua testa e poi protrarsi fino al tuo dito indice che scatterà la foto.
Il buon fotoreporter decide di mostrarti una storia dal suo punto di vista e quindi da un’angolazione diversa rispetto quella canonica.

Quest’anno il festival di Internazionale è stato così per me, l’ho vissuto da un punto di vista diverso.
Non sono stata in coda nell’attesa di entrare al Teatro Comunale per discutere sul futuro dell’Europa, né ho sentito parlare della crisi migratoria all’Apollo, non ho vissuto il mio classico weekend di Internazionale.

Certo rinunciare a tutto ciò mi è dispiaciuto, ma mi riconosco molto in “quelli che fanno il workshop per incontrare i propri miti di sempre, che lascino almeno uno spunto per iniziare il lunedì mattina seguente oh yeah!”.
E oggi è lunedì mattina, e io ho già due pagine del Moleskine di spunti (beh se vai ad Internazionale, hai la Moleskine no? Dai).

1 Commento

  1. Lucia Livatino scrive:

    Articolo molto ben scritto, davvero. Le parole sono importati. Non sono solo forma.
    Una lettura piacevolissima e densa di spunti di riflessione. Una punta di invidia pure.

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