Non mi è servito molto tempo a inquadrare sommariamente Leo Bassanese. Diciamo il tempo di sorseggiare una cedrata in un bar di Corso della Giovecca, a pochi passi dall’appartamento che Leo ha occupato per quindici anni. Più o meno metà del periodo trascorso al servizio del Teatro Comunale, di cui è stato il custode fino ad agosto. Ora Leo Bassanese è un pensionato, di quelli felici di esserlo, nonostante conservi ancora la voglia di fare progetti. Anche perché non ha affatto l’aspetto che si assocerebbe all’uomo in pensione. Ma quello che più mi ha colpito di lui è la strana alchimia che governa il suo carattere, che unisce il forte senso pratico – proprio del custode ideale – e l’approccio… da artista che applica al racconto di sé. Di fatto Leo mi ha raccontato la sua vita nel tempo di una cedrata con ghiaccio in un giorno d’estate. Quindi non molto. È come se si fosse presentato su un palco, avesse condotto con disinvoltura la sua esibizione, si fosse congedato con un inchino e avesse preso la via che porta dietro alle quinte. Eppure di cose da raccontare non ne aveva poche.

Leo Bassanese prima di tutto è un ferrarese d’adozione. Non è originario di Ferrara, ma in città ha trascorso la maggior parte della sua vita: “Sono nato in Molise, a un’ora di macchina da Campobasso. Sono cresciuto lì fino a che nel 1970 mi sono spostato prima a Verona e poi a Torino per fare il servizio militare. Una volta finito con quello, sono capitato a Ferrara. Onestamente non so perché scelsi di venire qui. Però mi sono trovato bene fin da subito. Solo che all’epoca non avevo una lira e così accettai di andare a lavorare a Fossanova San Marco, dove c’era una distilleria. Ho lavorato lì due anni, pagato a cottimo. Tutto il giorno buttavamo i pezzi di mela in un macchinario. Poi per qualche tempo ho fatto anche il facchino alla Montedison”.
Per quanto qualcuno sostenga che nientemeno Federico Fellini definì il Polo Chimico di Ferrara “silente e magico come preziosa astronave posata nel centro dell’Emilia”, lavorare alla Montedison doveva avere quasi nulla di poetico, per cui non sorprende che Leo, a metà degli anni Settanta, abbia scelto di cambiare lavoro: “Verso il 1975 conobbi Antonio Azzalli, che mi chiese di dargli una mano nella gestione delle sue sale cinematografiche. All’inizio il mio compito era portare le pellicole da un cinema all’altro: dall’Alexander all’Embassy, dall’Apollo al Ristori. Non credo di aver mai girato così tanto con la Vespa su e giù per Ferrara come in quegli anni. Azzalli in seguito prese in gestione anche il Teatro Nuovo e divenni il classico tuttofare: dal riparatore al trasportare e altre cose di questo genere”.

Foto di Giacomo Brini

Tutto questo per almeno un decennio, fino a che coincidenza volle che l’intera organizzazione del Teatro Comunale si trasferisse al Teatro Nuovo a causa di ampi lavori di ristrutturazione: “Il direttore di allora, Gisberto Morselli, dopo sei mesi in cui mi vide all’opera, mi propose di andare a lavorare per lui al posto del vecchio custode. Può sembrare strano, ma non accettai immediatamente. Ne parlai con la mia famiglia e visto che loro furono contenti, andai al Comunale. Il direttore mi disse che per un paio d’anni avrei lavorato con partita IVA e poi sarei stato assunto. Ne sono passati venti prima della mia assunzione, ma mi sono adeguato”.

Termini contrattuali a parte, a posteriori sembra essere stata la scelta giusta: “Mi sono molto divertito e ho incontrato tanta gente simpatica. A chi mi chiede se era un lavoro ben pagato rispondo sempre che non ci si guadagnava, ma ci si viveva. Però in compenso ho avuto l’opportunità di conoscere decine di artisti bravissimi, alcuni poi diventati dei veri e propri amici. Claudio Abbado è senz’altro l’artista a cui sono più affezionato. Ero sempre il primo che il maestro passava a salutare ogni volta che arrivava al teatro. Quando lui era in città, Ferrara splendeva. Ricordo quando venne qui la prima volta con i Berliner Philharmoniker: sgobbai come un mulo per tutto il tempo, ma ne fui felice. Era davvero una fonte di ricchezza, soprattutto dal punto di vista morale e umano. Un’altra artista che ricordo con grande piacere e con cui nacque un’amicizia è Mariangela Melato. Magnifica attrice, donna eccezionale. Ma se dovessi fare l’elenco di tutti quelli che ho avuto modo di conoscere staremmo qui fino a domattina”. E non era il caso, perché il livello di cedrata nel bicchiere aveva già raggiunto la metà.

Ovviamente c’è chi inserisce i custodi nella categoria dei lavoratori tendenti al perdigiorno, ma nel caso di Leo non è così: “Il lavoro del custode è il tipico lavoro di sacrificio. Ma non tanto per la fatica, anche se per forza di cose è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via alla sera. Da quel punto di vista non ci sono orari e quando va male si fa notte. Ma ci si adegua. È faticoso più che altro perché si è investiti di grosse responsabilità. È quindi più una fatica mentale, come quella che deve fare un direttore o un presidente. Io mi sono sempre sentito l’equivalente della spalla per l’attore della commedia. Quel genere di personaggio che se manca tutti se ne accorgono”.

Eccolo che affiora, l’animo da palcoscenico di Leo. D’altra parte il teatro era il suo regno. Sveglia alle 7, alle 8 l’apertura degli uffici, poi l’apertura delle sale prove e la chiusura attorno alle 18.30. Questo ovviamente nei giorni di attività di routine. “Se invece c’erano degli spettacoli dovevo stare lì fino a che non se ne era andata l’ultima persona, fare il giro del teatro per controllare gli ambienti e spegnere le luci. Durante gli spettacoli a volte restavo a seguirli da dietro il palco, ma se non mi interessavano andavo a farmi un giro in piazza per poi rientrare prima della fine. Di solito mi piaceva restare per seguire lo spettacolo della domenica. In genere preferivo concerti e prosa, il balletto un po’ meno, ma semplicemente perché non è il mio genere”. Ma talvolta c’era anche da pensare alle mansioni extra: “Avere a che fare con gli artisti significava spesso assecondare le loro richieste. C’era chi esigeva di avere in camerino una particolare marca di acqua minerale o qualche altro prodotto: in tante occasioni è toccato a me provvedere. Forse quello che mi ha messo più in difficoltà è stato Pavarotti. Non tanto per la quantità industriale di ghiaccio che chiedeva ogni volta, ma perché ci fu un’occasione in cui mi chiese delle ciliegie in pieno inverno. Fortunatamente conosco un sacco di gente disposta a farmi un favore e riuscii a trovargliele”. Ci sono state anche occasioni in cui ad andare in scena è toccato a lui. Ma non a teatro, bensì su un set cinematografico: “Ho fatto anche la comparsa in cinque diversi film, tra cui ‘Gli Occhiali d’Oro’ di Montaldo e ‘In Nome del Popolo Sovrano’ di Magni. C’erano Alberto Sordi e Nino Manfredi. Lì interpretavo un bandito”.

E adesso, dopo ventisette anni di onorato servizio? “Prima di tutto mi farò un mese di vacanza giù in Molise, dalle mie parti, visto che da quando sono stato assunto non ho mai fatto vere e proprie ferie. Perché se anche il teatro chiudeva venti giorni ad agosto, c’era sempre la reperibilità dell’allarme. Quello mi ha sempre bloccato. Sentire l’allarme alle due di notte equivaleva ad avere un infarto. Ci sono state delle volte in cui sono dovuto correre giù in mutande per vedere cosa stava succedendo. Per fortuna non è mai capitato niente di grave. A parte il terremoto. Quella è stata davvero una brutta esperienza, con la chiusura che ne è conseguita. Però ci si è ripresi in fretta ed è quella la cosa più importante”. Come si è ripreso – un po’ meno in fretta – lo stesso Leo, dopo quello che lui stesso definisce il momento più difficile: “Qualche anno fa mi è stata diagnosticata la leucemia ed è stato qualcosa di veramente difficile da affrontare. Sembrava tutto a posto e invece mi capitava di svenire di continuo. Ho passato sei mesi in ospedale e questo mi ha causato anche un certo squilibrio a livello psicologico. Fortunatamente in seguito è arrivata la cura giusta per tirarmi fuori da questo guaio e adesso sto bene”.

Ora che ha spento le luci per l’ultima volta, sia a teatro, sia nell’appartamento che porta ancora il suo nome sul campanello, Leo guarda avanti anziché abbandonarsi alla nostalgia: “Ferrara ovviamente è cambiata tanto dai tempi in cui sono arrivato, ma continua a piacermi. È tranquilla, alla fine la gente è sempre la stessa. Ci si incontra con gli amici prima di andare a lavorare, non è una cosa che succede spesso nelle grandi città. Per il resto non so se il teatro assumerà un altro custode. Per il momento pare di no. In pratica è come avere un ristorante senza il cameriere. Come si fa a mandarlo avanti?”.

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