Dall’alto della sua impalcatura, il direttore d’orchestra sembra coordinare un cantiere all’aperto. Quando la telecamera allarga il suo raggio di azione, l’impressione è quella di perdersi in una distesa di persone e strumenti. Che suonano in sincrono. Già, perché la complessità di realizzare l’idea, nata all’organizzatore Fabio Zaffagnini, è legata all’esecuzione all’unisono di un brano dei Foo Fighters. Teatro del suggestivo concerto, il Parco Ippodromo della città di Cesena. Titolo del pezzo, ‘Learn to fly’, successo internazionale della band statunitense di Dave Grohl. Obiettivo, convincere i Foo Fighters a esibirsi nella città romagnola. A rendere concreta l’operazione una raccolta fondi, poi la selezione dei musicisti che hanno inviato un proprio video di presentazione. Quindi, l’arrivo del giorno in calendario, il viaggio verso la meta musicale, le prove, l’adrenalina che cresce. E infine la potenza trascinante della musica. A dirigere l’orchestra, il maestro Marco Sabiu. A cantare e suonare, mille musicisti provenienti da più parti d’Italia. Data dell’unica esibizione, domenica 26 luglio. Protagonisti, mille in tutto fra cantanti, bassisti, chitarristi e batteristi. Nome dell’evento, Rockin’ 1000, per l’appunto. A raccontarci i dettagli della giornata, uno dei ventiquattro musicisti ferraresi presenti, il batterista Francesco Falciano.

 

 

A distanza di poco più di un mese dall’evento Rockin’ 1000, che cosa conservi di quella esperienza?

«È stata un’esperienza indescrivibile, ancora il video muove emozioni uniche. Il video è una fotografia reale di quanto è avvenuto quel giorno, dell’energia che c’era nell’aria. Ci tengo a sottolineare che nessuno ci ha chiesto di ‘recitare’. Tutto quello che si vede è spontaneo. La vibrazione di suonare con novecentonovantanove persone è qualcosa che mi porterò dietro per sempre».

Come è nata l’idea di partecipare all’iniziativa?

«Un amico musicista (Alberto Paderni, batterista dei Rio) mi ha raccontato della folle idea di Fabio Zaffagnini, un ragazzo che si è inventato questo strano modo per inseguire il sogno di vedere i Foo Fighters suonare a Cesena. Questa impresa mi sembrava così follemente meravigliosa che prima di conoscerne i dettagli ho accettato. Il giorno dopo ho subito mandato il video col quale poi mi hanno selezionato».

Conoscevi già gli altri musicisti provenienti da Ferrara?

«Per me l’idea era talmente allettante e folle che ho subito diffuso la cosa tra i miei amici musicisti e su tutti i siti delle scuole di musica di Ferrara e non. Qualcuno ha colto la palla al balzo e ci siamo ritrovati là. Quelli che non l’hanno colta, ancora si mangiano le mani e convivono tutt’oggi con il mio spietato “te l’avevo detto io!”».

Ci racconti un aneddoto legato alla giornata del 26 luglio?

«È stata tutta una giornata incredibile, persone che arrivavano e si salutavano come se si fossero conosciute da sempre, jam session improvvisate, gente che ‘visitava’ i set dei colleghi, gente che ripassava. Il momento più importante che ricordo è stato quando, dopo una mattina passata a montare gli strumenti, alle 14.30 sono iniziate le prove con il maestro Sabiu. Tecnicamente, per suonare tutti insieme, hanno fornito a duecentocinquanta di noi musicisti una cuffia Wi-Fi che suonava una base di piano e tastiere, e un click come una traccia di riferimento comune. In più sulla torretta c’era il maestro che dirigeva, e un semaforo con luce verde e rossa lampeggiante a costituire una sorta di metronomo visivo. Quando il maestro Sabiu ha detto “Bene, ora proviamo con i batteristi!”, eravamo consapevoli di essere davanti al momento della verità: fino ad allora non sapevamo se saremmo riusciti a suonare insieme… Ci trovavamo davanti al bivio fallimento-successo… La tensione era davvero palpabile e bassisti, cantanti e chitarristi ci fissavano per vedere cosa sarebbe successo. Nelle orecchie ho sentito ‘1-2-3-4’ e ho buttato le mani per il primo colpo di rullante che caratterizza l’inizio del pezzo. La botta delle duecentocinquanta batterie al perfetto unisono ha consacrato il successo. Mano a mano che insieme consumavamo le note successive sotto i colpi dei nostri tamburi, tutti i bassisti, i chitarristi e i cantanti sono arrivati attorno a noi urlando di gioia, e il pezzo è arrivato alla fine tra l’ovazione generale. Le lacrime di Fabio che avevo davanti in quel momento è una cosa che non dimenticherò mai più».

Courtesy Francesco Falciano

Fra i vari partecipanti sono nati progetti finalizzati a eventuali collaborazioni future?

«Abbiamo un gruppo ‘segreto’ di Facebook dove ogni giorno vedo che si allacciano nuove amicizie e collaborazioni, ospitate fra i vari concerti e inviti a partecipare nei diversi progetti musicali. Personalmente ho iniziato il progetto di un video che sarà registrato ‘a distanza’ con altri ragazzi di tutta Italia. Al momento è una cover ma non è da escludere che poi, se la cosa funziona, possano anche seguire pezzi originali».

C’è un’immagine dell’evento che ti è rimasta impressa?

«Alla fine delle registrazioni, abbiamo iniziato a suonare sui tamburi il caratteristico tempo di ‘We will rock you’ dei Queen. I chitarristi e i bassisti hanno iniziato a marciare in mezzo a noi con i loro strumenti sollevati in segno di vittoria. Questa è stata forse l’immagine più significativa del nostro trionfo».

Tu suoni da trent’anni. Quando hai sentito la scintilla verso la musica?

«Io ho iniziato a prendere lezioni di pianoforte a circa sette anni, grazie ai miei genitori che mi avrebbero sempre voluto pianista. Ma l’approccio dei miei insegnanti è sempre stato troppo teorico, e non è il modo migliore per invogliare un bambino a suonare uno strumento. Tuttavia ero già appassionato di musica rock e a dodici anni, vedendo un concerto dal vivo, in vacanza con i miei genitori, sono stato folgorato dal batterista. Mia mamma, sempre pronta a cogliere e appoggiare ogni mia inclinazione, mi ha procurato un insegnante di batteria e da lì ho iniziato prima nel palio con il tamburo, poi con diverse band a coltivare il sogno… che dopo tanti anni è ancora ben vivo e presente».

È più gratificante suonare per un pubblico di proporzioni gigantesche o di pochi appassionati?

«Se ami davvero la musica, per chi suoni non conta: lo fai per te stesso e per le emozioni che ti sa dare il rapporto con il tuo strumento. E speri che questo, in un grande stadio o in piccolo pub, arrivi alla gente. È bellissimo vedere la gente che canta le tue canzoni (ho la fortuna di aver suonato negli anni Novanta con i Giullari quando i locali proponevano solo musica originale). È altrettanto bello vedere la gente che balla e si sta divertendo mentre stai suonando pezzi che non sono tuoi, ma il momento migliore, ce l’hai quando hai un buon feeling con il tuo strumento e con la band. Personalmente preferisco il pubblico vicino dei posti piccoli, ma i palchi grandi, se supportati da service adeguato, possono darti una botta incredibile».

Quanto è necessario un percorso di studio per poter dire di essere un musicista?

«Se vuoi essere un batterista, puoi semplicemente imparare mettendo in cuffia delle canzoni e imitare quello che senti della batteria. Se vuoi essere un vero musicista, devi studiare ogni giorno la teoria e la pratica del tuo strumento e possibilmente anche di altri, essere curioso, ascoltare tutti i generi musicali, capire le origini e anche la musica moderna. Il mio primo maestro è stato Lele Barbieri che, oltre a insegnarmi i primi passi sullo strumento, mi ha insegnato a leggere la musica ed è tutt’oggi assolutamente la cosa più utile che ho imparato. Poi ho avuto altri maestri come Sergio Pescara, Christian Meyer e tutt’oggi Walter Calloni che, accanto al perfezionamento delle basi, mi hanno inserito in percorsi di studio prima inesplorati e mi hanno fatto trovare nuovi modi di esprimermi da utilizzare anche in generi diversi dall’originale. I musicisti che hanno fatto storia sono stati quelli che sono stati capaci di trasportare modi di suonare propri di certi generi in contesti diversi. Si pensi ad esempio alla classica clave latinoamericana e al famosissimo riff di chitarra di Bo Diddley».

Rispetto a quando hai cominciato, che cosa è cambiato e che cosa è rimasto intatto oggi, nel mondo della musica che segui?

«Tante cose sono cambiate, per diversi motivi culturali e di evoluzione. Molto sicuramente è cambiato a causa dell’evoluzione della tecnologia, che ci ha fatto cambiare il modo stesso di fruire la musica. Quando ero ragazzino, ad esempio, sentivo una canzone alla radio e la registravo (con risultati di qualità pessima). Dopo, se avevo i soldi, andavo a comperare il disco o la cassetta, che poi ascoltavo e riascoltavo fino a stancarmi. Oggi senti un pezzo alla radio e scarichi l’intera discografia dell’artista ascoltando probabilmente solo quel pezzo un paio di volte perché già stai pensando alla nuova hit di un nuovo artista. La musica è più a consumo ‘immediato’, per questo si devono produrre canzoni ‘in stampatello’ che devono arrivare subito. Canzoni prodotte con pochi soldi e in fretta. Questo ha causato l’istituzione di una ‘fabbrica’ dove la musica non è una più espressione dell’artista in sé, ma il risultato di un sistema di persone che produce canzoni per la vendita. Io sono cresciuto con un concetto diverso su come comporre canzoni. Andavo con i miei amici in sala prove e insieme costruivamo qualcosa, ottenendo piccoli riconoscimenti che però pagavano tantissimo. Ad esempio, con i Giullari, nel 1994, con pezzi inediti abbiamo vinto ‘Ferrara Rock’, che era la manifestazione musicale per gruppi emergenti allora più importante della città. Se si ascolta la musica degli anni Settanta si capisce come gli artisti erano lasciati molto più liberi di esprimersi e sperimentare, e non a caso canzoni epiche e immortali arrivano da quel periodo».

Ultima domanda. Credi che la musica rappresenti un linguaggio intimo o corale?

«Se riguardate il video di ‘Learn to Fly’ di Rockin’1000, osservate le facce e notate come le espressioni dei diversi musicisti siano diverse, anche opposte. Una dimostrazione di come la musica possa venire vissuta in maniera intima differente, ma anche con sentimenti comuni».

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