La prima volta che ho sentito dal vivo i Verdena è stata proprio a Ferrara. Era il 2004, c’era ancora lo Zoo aperto, quello vero, quello stipato in un capannone in Diamantina, con le gradinate in ferro ai lati della pista, quello dove facevano musica rock a Ferrara. I Verdena li ho conosciuti probabilmente in ritardo, presi per la coda del loro terzo album, Il Suicidio del Samurai, che suonava già diverso dai primi due e che conteneva già i semi di una caratteristica che il gruppo bergamasco si sarebbe portato poi dietro per il resto della carriera: cambiare sempre per non cambiare mai, cambiare sempre per diventare non qualcosa di diverso, ma per definire sempre meglio sé stessi. La rivoluzione che aspetto, come dicono in Miglioramento. Era il 2004 e quella sera ero finito in alto, distante dal palco, sopra le gradinate, a conoscere quelle che sarebbero poi state compagne di molti loro concerti futuri: le transenne, il ferro, il grigio che ti lascia i segni sulle mani che stringono. Feci addirittura una foto con Roberta, la bassista del gruppo, senza a riuscire a chiedergli una sola cosa (nella foto Roberta ha gli occhi chiusi). Sudai davvero poco, quella sera, ma scoprii un gruppo rock che nei successivi undici anni sarebbe diventato una maglietta da indossare sotto pelle, cd consumati in macchina, concerti in città diverse cui andare sempre, anche da soli, con la pioggia o il caldo o l febbre a 38°, per riuscire a rimanere in piedi quando l’acqua attorno a me saliva oltre le caviglie, le ginocchia, i fianchi.

Ieri sera tornava in piazza Castello il Monolite kubrickiano delle estati ferraresi, il palco principale con i tubi innocenti ormai immutato da anni. Quel palco che al posto di schermi giganti usa gli alberi per cingere la scena, i rami al posto delle luci, che quando tira molto vento finiscono per diventare parte integrante del set con coreografie completamente imprevedibili. Il palco di piazza Castello segna l’inizio della fase calda di Ferrara sotto le stelle, quella con i piedi segnati dai ciottoli, con le birre da Giori per lavarsi dei peccati del giorno prima di entrare e decidere da che parte stare tra le fazioni religiose: si vede meglio a destra perché la piazza è in pendenza, vicino al mixer però tira più aria, dai sediamoci sul marciapiede cinque minuti. Quel palco è il monolite che emana energia inspiegabile, forse ingiustificabile dopo così tante edizioni, che richiama adepti più o meno nuovi negli anni, che rilancia nel cosmo il seme dell’estate (e quindi della vita) che farà germogliare nelle altre galassie, oltre Plutone e oltre settembre, nuovi concerti, nuove storie, nuovi ritorni. Tornano i Verdena e tocca a loro smontare luoghi comuni, canzone dopo canzone, letteralmente a mani nude: senza nessuna traccia di retorica, usando soltanto la parola “grazie” come intercalare tra un pezzo e l’altro, scegliendo soltanto di essere musica, pura musica senza artifizi visivi, scenici, o di significato. Cado in ginocchio davanti al Monolite, ancora spento, e quando irradia luce e muri di suoni, penso che da grande vorrei essere davvero come i Verdena, che nel 2015 Roberta salta ancora dritta in piedi suonando il basso come nel 2004, che Alberto (il cantante-chitarrista-oraproduttore dei due fratelli Ferrari che compongono il resto del gruppo) sbaglia ancora clamorosamente gli attacchi e non solo come nel 2004 (ma ora mantiene la calma), che Luca picchia ancora come un dannato sulla batteria come nel 2004. Sono sempre loro, sebbene diversi, e in tutti questi anni mi hanno insegnato a fare la rivoluzione che aspetto.

Foto di Eugenio Ciccone

Ci sono milioni di luoghi comuni sui Verdena, che sei album uno più costruttivo dell’altro non sono ancora riusciti a smontare completamente. “I testi non vogliono dire un cazzo” è il primo, il più ricorrente, il più sferzante. «Siamo scimmie nel wrestling», «Chiamami Nevruz», «Ciglierò»: ci sarebbero milioni di passaggi incomprensibili da citare, ogni pezzo è sostanzialmente basato sulla presenza esagerata della seconda persona singolare nell’uso dei verbi e l’accostamento di immagini impigliate una sopra l’altra o messe in fila come libri disordinati su una libreria. Colori diversi si alternano, senza logica, senza costruire un discorso, senza creare coinvolgimento. Esistono canzoni memorabili che si reggono e diventano eterne anche per passaggi basati esclusivamente su serie di vocali prive di significato (cito il finale di Hey Jude dei Beatles tanto cari ai Verdena, il nananana che tutti ricordiamo e che fa sciogliere i piedi a tutti, pur non volendo dire nulla). Ma il punto non è nemmeno questo: i testi dei Verdena non vogliono davvero dire un cazzo, perché non sono parole ma travi su cui si innesta la musica. Criticare i Verdena per i testi incomprensibili è alterare scientemente l’equilibrio chimico e cosmico dell’entità canzone, che è sempre il risultato di testo più musica, così come quando si litiga le colpe sono di tutti e due, e mai di uno solo. Quando, per esempio, in 40 secondi di niente arriva settembre “che ci porterà via con sé”, consegnato dal suono delle chitarre che sembra il vento di un temporale di fine agosto, ho sempre le labbra che si increspano per un sorriso inspiegabile, sincero, comprensibile.

Poi ci sono quelli che dicono che i Verdena non si sono mai evoluti, che sono rimasti un gruppo di o per ragazzini. Sono quelli, probabilmente, che guardano ai Verdena come si guarda a una piscina, una massa d’acqua al cloro racchiusa dentro un perimetro di cemento da cui si intravede il fondo, sempre azzurro, senza onde, prevedibile. Poi tuffandosi si scoprono le righe delle piastrelle, le crepe, imperfezioni su cui ricamare percorsi imprevisti, ci sono alle pareti tubi che sparano getti d’acqua turbolenta che ti scompiglia i muscoli. Però, per vedere tutto questo, bisogna togliersi gli occhiali e tuffarsi. I Verdena hanno iniziato a suonare nel 1999 e i ragazzini di allora sono diventati adulti e ora ai loro concerti ci sono i ragazzini di una volta e in più i ragazzini di adesso, quelli che agitano in aria bottiglie di plastica come fossero ossa di scimmie kubrickiane che si stanno evolvendo e portano avanti l’antica arte del pogo. I Verdena si sono dilatati nel tempo mostrando sempre le stesse facce, lo stesso atteggiamento, la stessa impostazione, infilando però in ogni nuovo album un elemento in più. Nel concerto di ieri sera (e nei loro album) c’erano mille citazioni disseminate, c’erano mille registri (da un incedere quasi battistiano di Contro la ragione a derive post rock e mistiche del microfono ingoiato nella coda di Rilievo), c’erano mille fasi emotive e c’erano mille trame disegnate dal piano, dalle chitarre, dalla sezione ritmica. Ho visto gente assorta, gente annoiata, gente saltare, gente sudare e questo basta per smontare il luogo comune: la stratificazione nella costruzione dei pezzi si svelava sulle facce di chi ascoltava, e valeva molto più di mille teorie musicali.

Poi ci sono quegli altri che dicono che i Verdena siano “tristi”. O monotoni. O monocordi, che al giorno d’oggi diventa tutto un po’ sinonimo. Come se la musica dovesse dividersi per forza tra triste e allegra, invece che tra bella o brutta, tra memorabile o trascurabile. Forse i Verdena non sono esattamente quel tipo di gruppo che puoi ascoltare così, per la prima volta, e finirne coinvolto, ma sa gettare secchiate d’energia anche a chi tiene aperto l’ombrello e finisce per farglielo perdere dalle mani. Forse al primo loro concerto non sarai travolto da un temporale, ma ne uscirai bagnato. Iniziano con suoni un po’ troppo bassi, con una resa che non rende giustizia a singoli travolgenti come Un po’ esageri, e poi finalmente esagerano, il muro di suono si alza e si abbatte come una cascata sulla piazza. E vedo persone sorridere, salutarsi, ondeggiare, saltare, vedo un’allegria molto più rarefatta, subdola, che entra dalle narici come un fumo invisibile e germoglierà al prossimo pezzo, magari, o a fine serata quando ci si saluta tutti, o nella notte o domani o addirittura tra vent’anni.

Negli anni ho dimenticato il numero di volte in cui ho preso la macchina per andare a vedere un loro concerto. Toscana, Emilia, Romagna, Lombardia, Veneto, d’inverno o d’estate, in gruppo o da solo, tutte le volte in cui avevo bisogno di trovare una mia risposta a domande che non mi ero scelto di porre, finivo sempre ad ascoltare i Verdena. Anche ora che probabilmente sono troppo grande per mettermi a saltare “distorto come un angelo anormale che cade” su Luna reggendomi con le mani sulle spalle degli altri, anche se sono nella mia città, finisco sempre per usare i concerti dei Verdena come fossero birre ghiacciate quando fa caldo, o una sigaretta dopo pranzo, o un nuovo foglio bianco da riempire senza nessuna ansia, o un distributore di benzina che appare 100 metri dopo che ha suonato la spia della riserva. Eppure tutte le volte ne esco stupito, rincuorato anche, ecco, e pulito da tutti i luoghi comuni che ci gettiamo addosso, sulla musica e sulla vita, lavato da tutte le macchie di incomprensioni che le stagioni e la critica musicale imprimono sulla pelle. Un rinnovamento rimanendo sempre fedeli ai propri difetti, senza autoindulgenza ma con spirito costruttivo per scegliere sempre risposte elaborate, sincere, non per forza efficaci, ma sicuramente “proprie”. Ad un certo punto, ieri sera, parte Miglioramento, il giro di basso come un dito sulla spalla di qualcuno che è dietro di te e ha una voglia matta di farti ballare, gli accordi di piano come palpebre che sbattono perché è entrata luce nella tua stanza al mattino, la batteria che ondeggia da una parte all’altra della strada come quando si va in bici in una discesa, e poi arriva il muro, il suono che precipita dall’alto del palco, quando nella canzone tutto questo si unisce. Il muro precipita, ed entra per la prima volta dall’inizio della serata e forse di questo luglio fallimentare una folata di vento gentile, sorridente, rassicurante che dilata i palmi delle mani e muove appena i capelli. L’estate, i Verdena, Ferrara sotto le stelle. La rivoluzione allo specchio.

2 Commenti

  1. Marcello Greco scrive:

    Bravo. Mi piace l’idea che si può dire di tutto ma che solo il filtro delle ns emozioni dopo la conoscenza e l’esperienza, possono dare un senso alle cose, alla musica .. . ” un giro di basso che è come un dito che ti bussa sulle spalle e che ti invita a ballare”…Ah ah stupenda immagine.. ..Una sensazione che ho provato tante volte su vari pezzi musicali o canzoni che mi hanno spinto a ballare mentre correvo nel parco o in casa in mutande davanti ad una credenza della sala incurante di ciò che.mi circondava … Non conosco i Verdena ma dopo il tuo pezzo mi andrò a cercare qualcosa. Ciao

  2. Brugo scrive:

    Complimenti, sei uno scrittore vero! Un trasmettitore di emozioni, un edificatore di sogni. Sei uno schiaffo, un pugno, una carezza. I tuoi pezzi pulsano, si muovono!
    Grande davvero!
    Brugo

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