di Valentina Sarti Mantovani

Visualizzazione dell’immagine. In fotografia viene chiamata in questo modo l’abilità di riuscire a prevedere la riuscita finale di un’immagine prima di aver premuto il pulsante di scatto sulla macchina. Una sorta di costruzione mentale astratta che permette di concepire a priori dove ci saranno ombre e luci, dove occorrerà aggiungere del contrasto, dove si dovrà aggiustare l’esposizione e così via. Un pregiudizio, nel senso letterale del termine, fondato sull’esperienza e sulla pratica.

Parto per trascorrere un mese negli Stati Uniti, in Texas per la precisione, per una collaborazione di ricerca. Ebbene sì, sono una di quei giovani scienziati che non si è ancora decisa a liberare il cervello dalle sue catene italiote e a lasciarlo libero di vagare al di fuori dei confini nazionali, nella vana speranza (e forse utopica) di ritornare prima o poi all’ovile. Finora mi sono mossa tra le dolci pianure ferraresi e le sinuose colline delle lande torinesi, felice di contribuire in minima parte alla ricerca accademica italiana, dal prossimo anno si vedrà.

Ad ogni modo non sono qui per perdermi nei dedali della questione “ricerca universitaria in Italia”, “fuga dei cervelli”, “disoccupazione giovanile” e quant’altro, ma per rendere partecipe chi avrà la pazienza di leggere questo racconto di un viaggio nel profondo Sud americano e della miriade di pensieri che come rivoli sono scaturiti dall’incontro con il nuovo.

Il constante brusio di fondo dell’aereo e dei suoi ingranaggi, pompe, turbine, liquidi che mi permettono di viaggiare a circa diecimila metri da terra (nonostante la laurea in Fisica, cavolo, questa cosa mi sconvolge ancora) mi accompagna nelle circa dieci ore che da Londra mi portano a Houston, Texas. Nell’angusto posto a sedere inizio a pensare a cosa mi aspetta nel Nuovo Mondo. Autostrade che si intrecciano in verticali peripezie, grattacieli che spuntano dal terreno in tutta la loro intimidatoria veemenza, verdi distese con mucche al pascolo. Multiculturalità, frontiere e confini, contrasti e dissonanze.
Atterro, sulle note della colonna sonora di “Fievel alla conquista del West” (giuro, non è uno scherzo) e risulto idonea al controllo immigrazione. Ufficialmente autorizzata a restare sul suolo texano.

Mi è sempre capitato di essere in preda ad una certa euforia quando mi ritrovo a viaggiare, il corpo si comporta in maniera diversa. Le pupille si allargano, desiderose di cogliere ogni più piccola sfumatura nel cemento del marciapiede sul quale aspetto paziente il bus, le orecchie si adattano naturalmente alla musicalità della nuova lingua, attente a ricevere ogni inflessione, ogni “good Morning ma’am” che mi viene rivolto da gentili sconosciuti, la mia lingua risponde cortesemente a tali gentilezze, lasciandosi andare senza troppi indugi linguistici in un piacevole effluvio di frasi e parole. E le mie gambe, ammetto le mie compagne più fedeli nei miei pellegrinaggi, diventano schiave della mia mente, pronta ad andare sempre un qualche metro più in là nella convinzione che la bellezza e l’insolito si nasconda ad ogni singolo angolo. La macchina fotografica, il dito è ben fermo sul pulsante, la mia mente e il mio cervello sono pronti a scattare. Clic.

Foto di Valentina Sarti Mantovani

Primo weekend Houstoniano, difficile da mettere nero su bianco. Confesso di essere in sovraccarico di input, devo digerire un sabato e una domenica passati a percorrere strade, vicoli, quartieri e a processare quello che ho visto.
Gli Stati Uniti d’America, per la mia piccola esperienza accumulata finora, sono un paese fondato sul concetto di distanza, lunga o breve che sia.
Distanze spaziali, distanze temporali, e passaggi, infiniti passaggi e infiniti cambiamenti tra diverse realtà.
La maggiorparte di questa grande porzione di terra è riempita non da persone e agglomerati urbani ma da campagne, montagne, boschi, parchi enormi, elementi che gentilmente muovendosi da nord a sud e da est a ovest si compenetrano e si armonizzano dando origine al fantastico e unico landscape americano. Forse uno dei vuoti più splendidi che si possano trovare sulla nostra cara vecchia Terra.
Poi arriviamo noi, gli esseri umani.
Ed ecco queste selvagge e sensuali metropoli con le loro curve che ti attraggono nella giungla selvaggia di grattacieli, palazzi, zone in vertiginoso sviluppo abitate da artisti e giovani, aree verdi e stadi. Per me europea tutto ciò, insieme ovviamente alla diversità di cultura che l’America offre, è pura seduzione.
E così decido sabato mattina alla buon ora, zainetto in spalla, macchine fotografiche cariche, di farmi sedurre, di farmi completamente conquistare da tutto questo charme.

L’evoluzione delle distanze spaziali di questo sabato mi porta dal mio quartiere, Eastwood, prettamente residenziale dove è molto più semplice leggere il cartello “Private Property, No Trespassing” del numero civico, dove il sabato si taglia l’erba del giardino e si pulisce il barbecue usato la sera prima e dove qui e là vedi qualche bandiera texana a Downtown, cuore economico della città, deserta nel weekend ma avvolgente con i suoi grattacieli scintillanti nel sole del Sud. Mi fermo a pensare, trovandomi nel continente in cui la crisi economica del 2007 ha avuto inizio, come sia stato concepibile che le poche decisioni prese in questi palazzoni, ghetti dominati da parole deresponsabilizzate come economia, mercato e business, siano state lasciate libere di distruggere e radere al suolo parole piene di significato come vita, dignità, lavoro, futuro. La distanza non conta, tutto è collegato, ogni azione ha una conseguenza.

Questi pensieri e la mia curiosità mi spingono ad addentrarmi nelle aree un pò più povere, dove davanti ad una casa fatiscente una big mama seduta sui gradini del suo porticato cerca conforto dalla calura texana sventolandosi con un fazzoletto e ti sorride, continuando a farsi aria.
Ogni metro, ogni “block” percorso equivale ad una conquista sociale o ad una perdita. Una decina di chilometri separa una delle zone pìù ricche della città da uno dei quartieri meno agiati. La casa, come bene immobile, è la discriminante. Se possiedi una casa, allora sei wealthy, altrimenti finisci nella gozzovigliante area grigia della working class e di quella fetta di lavoratori che lavora nei locali alla moda di Montrose, nei centri commerciali e finito il turno prende il bus e torna a casa.

E’ quello che mi racconta il signore guatemalteco alla fermata del bus 27, diretto verso la zona nord della città. Seduti in una delle vie principali del Rice village, dove sfilano Camaro, BMW e Mustang, di fronte ad una villona dal giardino immacolato, mi racconta che viene da un piccolo paese sulle montagne, ha due figli e lavora come lavapiatti in un locale lì vicino. Nel suo inglese casalingo mi fa capire che non prende tanto ma è contento, riesce a vivere.

Arriva il bus, salgo.
La distanza improvvisamente aumenta. L’autobus è uno di quei luoghi di passaggio che ti permettono di sondare a fondo le sfaccettature della società.
Guardando fuori vedo i viali puntellati da graziose villette e giardini perfetti trasformarsi in food mart dai colori sgargianti, taquerie messicane, lavanderie, anonime casette di legno con giardini straripanti di rifiuti e ninnoli, autostrade su cui sfrecciano pick-ups e muscle car, scuole e banchi dei pegni. Il cemento e le ruote del bus che stridono nell’afa texana, a tratti, mi ricordano perchè la crisi del 2007 è iniziata da qui.
Poi volgo lo sguardo all’interno del bus. Salgono e scendono mamme di colore con bambini sorridenti, anziani di colore dagli occhi stanchi e dalle mani erose dal tempo, giovani dalla pelle olivastra con lo zaino colmo di libri e altri con lo sguardo perso, vecchie signore accaldata con le mani indaffarate a cercare qualche spicciolo nella borsa. Un’intero zoo di molteplici visi, colori, occhi che hanno in comune questo non-luogo di passaggio su cui si rivelano le contraddizioni, da un lato, e la grande umanità nel rivolgere un sorriso anche ad uno sconosciuto, dall’altro, di una società così complessa come quella americana.
Una società e un paese nato dall’indipendenza e dal sangue dei suoi stessi abitanti, luogo di grandi conquiste e di grandi tragedie, nato dalle divisioni ma fondato su di un grande orgoglio nazionale (sebbene frammentato dal civic pride dei singoli stati a volte).
Qui puoi essere ciò che vuoi, probabilmente è vero ma nel fallimento o nel momento di bisogno sei solo. Passaggio da un’eccesso ad un’altro, dalla signora seduta davanti alla sua casa sgangherata a quella seduta sulla sua Escalade nera con bibitona e musica hip hop che esce dagli altoparlanti a tutto volume.
E provenendo dal vecchio continente, patria dello Stato Sociale (anche se un pò maltrattato nell’ultimo periodo), in questo caso vado fiera dei miei natali.
A tratti la mia descrizione potrà esservi sembrata superficiale e scontata ma questo weekend, passato camminando e contando quante monetine mi restavano in tasca per il prossimo autobus, oltre ad aver decisamente messo alla prova i miei polpacci, ha decisamente stimolato la mia materia grigia.
Ora, sul bus verso casa, mentre l’aria del tramonto si tinge di un confortante arancione e una leggera brezza entra dal finestrino, chiudo l’obiettivo, riavvolgo la pellicola e lascio riposare i miei neuroni.
Clic.

(continua)

2 Commenti

  1. Giuseppe Ruzziconi scrive:

    Intensi e suggestivi questi scatti. Sarà la metafora del viaggio, sarà il momento particolare, saranno le emozioni che nascono ed esplodono ogni qualvolta metto piede su un treno o su di un aereo ma succede anche a me quando giro l’Italia o viaggio per il mondo. Non rinuncio mai a scrivere le sensazioni che provo…quasi fossero una intima confessioni. A volte buone solo per me. Valentina ti ho letto, bevendo d’un fiato il tuo racconto-riflessione. Bello e impreziosito da immagini quotidiane che ai più sfuggono. Eppure sono così normali da essere straordinarie.Ma la vita corre e pochi se ne accorgono. Tu hai scattato tante bellissime foto.
    Un abbraccio. Ti faccio tanti auguri per la tua permanenza negli Stati Uniti.

  2. Valentina scrive:

    Grazie Beppe.
    Certe volte le cose più ordinarie e banali, secondo me, sono quelle che ti riempiono gli occhi di meraviglia e stupore.
    Sono contenta di essere riuscita a ” portarvi con me” in questo viaggio!
    Un abbraccio.
    Valentina

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