Il sole, dal chiostro di San Paolo, ritorna a sorridere a metà pomeriggio. C’è il flusso di pioggia a corrente alternata e c’è quello che invece procede continuo. La fila avanza compatta nell’area Comics, in mano l’illustrazione di Roberto Zaghi. La figura di Ringo, personaggio della serie Orfani, in primo piano. La facciata del palazzo Diamanti sullo sfondo. Il disegnatore ferrarese pazientemente autografa ogni copia, aggiunge una dedica, saluta vecchi amici. Esaurite le illustrazioni, trova il tempo anche per noi. Nel colloquio che segue c’è un disegno realizzato sul momento. E ci sono le risposte alle nostre curiosità. Ecco l’intervista a Roberto Zaghi realizzata qualche settimana fa durante il festival FEcomics & Games.

C’è un’età ideale per cominciare a disegnare?
«Il disegno è associato all’infanzia, anche l’adulto disegnando gratifica in fondo l’eterno bambino che contiene. Per cui direi che chi detestava il disegno in tenera età lo amerà con gli anni. Nell’ambito più propriamente legato al fumetto, il momento della lettura è fondamentale e propedeutico al disegno, l’inclinazione naturale – se c’è – fa poi il resto».

Il tuo approccio al mondo del fumetto da quali autori è stato condizionato?
«I supereroi della Marvel mi tennero compagnia per alcuni anni. Me li fece scoprire un caro amico appassionatissimo, cominciavo a memorizzare i nomi degli autori: lo scrittore, il matitista, l’inchiostratore, il colorista. Un fumetto lo si fa in pochi, al massimo in quattro. Di mezzo c’erano quasi sempre Stan Lee, John Buscema e Jack Kirby. Poi gli anime televisivi ( i ‘cartoni giapponesi’) mi diedero l’impulso ad approfondire il disegno, anche se io li transcodificavo in fumetti prima dell’arrivo in Italia dei manga su carta. Sul fronte diametralmente opposto Magnus e Bunker furono altrettanto importanti, con Alan Ford. Più avanti, molto più avanti, fu Tiziano Sclavi con i disegnatori di Dylan Dog a far breccia. Ma la vera svolta fu l’incontro con i miei due amici e maestri Germano Bonazzi e Nicola Mari: la loro bravura, passione, competenza e generosità, le riversarono su di noi allievi del corso di fumetto serale dell’Arci. Correva il 1992. Non posso non menzionare tra i miei autori di riferimento Moebius, Attilio Micheluzzi, Sergio Toppi, Ivo Milazzo e Alex Toth».

Quando hai realizzato l’idea che i disegni avrebbero fatto parte della tua vita?
«Se intendi a livello professionale, è stato un salto senza rete che feci intorno ai ventitré anni, e devo tutto a Sergio Bonelli che lo rese possibile».

Ci racconti del tuo approdo al mondo della Sergio Bonelli?
«Frequentai lo studio di Germano per alcuni mesi dopo la fine del breve corso a cui accennavo. Imparavo (credo) in fretta e ci divertivamo molto diventando veri amici. In breve, grazie anche a Roberto Roda e alla sua vicinanza con Alfredo Castelli di Martin Mystère, riuscii a pubblicare qualche illustrazione di Martin ambientata nei dintorni del Delta del Po. Realizzai, poi, su testi di Alessandro Borsetti, una short story di Nathan Never con cui bussammo alla porta di Antonio Serra, sempre sotto la scorta di Germano. Ma in quel momento alla Bonelli cercavano disegnatori per la testata-contenitore fantasy Zona X, e nel giro di pochi mesi fu quella la prima sceneggiatura vera che mi fu affidata. Contestualmente a tutto ciò, abbandonai gli studi alla facoltà di chimica di Ferrara, non senza un pizzico di dispiacere sepolto sotto litri di china e risme di Fabriano 4. La mia famiglia per fortuna non batté ciglio di fronte a questa deviazione di rotta».

Hai lavorato per Legs Weaver e per Nathan Never. Dare sembianze a un universo fantascientifico richiede una predisposizione particolare?
«Credo ci siano disegnatori più appassionati di me di fantascienza. Non sono un vero cultore del genere, anche se Asimov, l’avevo letto integramente e il biondo Ed Streaker di U.F.O. fu uno dei miei miti, insieme a John Koenig di Spazio 1999. Ma il fumetto filtra tutto attraverso il terreno amico del disegno e per fortuna potevo contare sulle sceneggiature di Michele Medda e Pasquale Ruju, due autori di grandissimo talento che mi facilitarono il compito».

Foto di Andrea Bighi

Dal 2000 sei entrato nello staff di Julia. Quanto naturale è il passaggio da un genere come la fantascienza a uno come il giallo?
«Il denominatore comune è il disegno. Dalla sua padronanza consegue la versatilità di genere. Ma il fumetto è essenzialmente narrazione, e il disegno va fortemente educato in questo senso. Fu proprio l’incontro con Giancarlo Berardi a rivelarsi fin da subito fonte di insegnamenti fondamentali sul piano della comunicazione per immagini. Tante trame di fantascienza e fantasy contengono elementi gialli, con Julia si tratta però di calarsi in un mondo non futuribile né fantastico, ma del tutto aderente al reale, con personaggi che vengono descritti a partire dai loro aspetti psicologici e fisiognomici. La tematica narrativa di Berardi, sviluppata già nel celebre Ken Parker, ha punti di contatto con il cinema e con la fotografia, due mie grandi passioni che proprio in quegli anni cercavo di approfondire grazie alla biblioteca e alla videoteca di mio zio, don Franco Patruno. Di rilievo il fatto che Julia sia un personaggio femminile, ispirato per giunta a un’icona dell’eleganza come Audrey Hepburn: se sono riuscito a darle una mia interpretazione lo devo anche alle ‘dritte’ di mia moglie Marica, la vera artista in famiglia».

La maggior parte delle avventure della criminologa Julia Kendall si svolgono nell’immaginaria città statunitense di Garden City. Quando disegni le sue atmosfere ti lasci guidare esclusivamente dalla tua fantasia, o trasferisci qualche elemento reale di un luogo che magari conosci?
«C’è più realtà possibile, ma distillata, scortecciata, privata di ciò che risulta superfluo ai fini del racconto, esasperata a volte in certi elementi che possono colpire maggiormente il lettore e portarlo nella direzione prevista dalla storia».

La costruzione grafica di un personaggio risente delle stesse dinamiche?
«Direi di sì, nella misura in cui il fumetto è connubio perfetto di testi e immagini».

Ci racconti della tua esperienza nel mercato francese?
«Ho iniziato a collaborare con l’editore francese Bamboo nel 2007, quando cercavano un sostituto per il disegnatore del fotoreporter Thomas Silane creato da Buendia e Chanoinat. La serie godeva di un buon successo e per fortuna l’avvicendamento è stato accolto positivamente dall’editore e, quel che più conta, dal pubblico. L’essere presente contemporaneamente su due mercati, con due tipi di fumetto abbastanza diversi, mi dà molta soddisfazione… benché raddoppi anche l’impegno richiesto».

Che effetto suscita sapere di disegnare un personaggio che non invecchierà secondo il naturale trascorrere degli anni?
«Questo non accade proprio a tutti i personaggi, alcuni invecchiano come noi! Ma è vero, con gli anni si tende ad attribuire alle proprie creature i nostri tratti, talvolta anche somatici, ed è bene fare attenzione a non accentuare questo transfert, la distanza di sicurezza tra noi e ciò che disegniamo va preservata. Però, che invidia per quei trentenni dei nostri eroi!».

Una volta concluse le tavole di un’intera storia, avverti l’impazienza, tipica del lettore, di aspettare l’uscita dell’albo in edicola?
«Non nascondo che la pubblicazione è un’incognita che può generare una certa ansia, soprattutto agli esordi o nel caso di una nuova esperienza professionale. Tuttavia i tempi redazionali fanno sì che l’uscita di una storia corrisponda al periodo di massimo impegno nell’impostazione di quella successiva, il che implica che può capitare di ritrovarsi in edicola faccia a faccia con il proprio fumetto fresco di stampa, avendo completamente dimenticato l’arrivo del gran giorno».

Quale è l’ultimo progetto al quale ti sei dedicato?
«Ho appena concluso il mio episodio di Orfani: Ringo. Riprendere il discorso fantascienza è stato molto interessante, la seconda stagione di Orfani, ora nel pieno dello svolgimento, richiama il genere post-apocalittico e si svolge in Italia. Lavorare per la creatura di Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari mi ha dato la possibilità di esplorare un tipo di fisicità e di plasticità dei personaggi con cui ambivo di misurarmi. Per la prima volta in Bonelli le mie tavole usciranno a colori (della bravissima Giovanna Niro), e questo mi riporta alla trepidazione di cui parlavi prima».

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