Venerdì mattina, suona la sveglia. È da poco finita la Run 5.30: apro Facebook e vengo invasa da selfie di persone in t-shirt fucsia in giro per Ferrara. “Ci sono andati proprio tutti!” penso. “Via Vallelunga 145, sai è un po’ lontano”, mi avevano detto ieri sera mentre con una mano tenevo il telefono e con l’altra scolavo la pasta. Avevo capito qual era la via, pensavo fosse facile e avevo sottovalutato quel “sai è un po’ lontano…”.

In Via Vallelunga si trova la struttura di accoglienza “Jerry Masslo”. Gli operatori della cooperativa Camelot mi hanno invitata assieme al resto della stampa ferrarese in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato: in programma, l’incontro con i ragazzi richiedenti asilo ospiti della struttura. Ricavata da una scuola elementare in disuso, è di proprietà del comune ed è gestita da Camelot nell’ambito del progetto SPRAR.

Il tema, non c’è nemmeno bisogno di specificarlo, è caldo e molto sentito: basta accendere la televisione in questi giorni per essere sommersi da servizi sulla chiusura della frontiera francese a Ventimiglia, sugli sbarchi dei barconi in Sicilia, sulle quote di distribuzione degli immigrati nei vari paesi Europei. Forse è per questo che a Listone hanno deciso di mandar me, una fotografa, ad affrontare un tema così delicato?

Di certo le fotografie non possono essere gonfiate come le parole, le immagini sono lì come un’incisione sulla pietra (Photoshop permettendo), poi ognuno è libero di interpretarle come meglio crede. Le fotografie lasciano libertà, respiro, non condizionano il pensiero, non ti dicono cosa è giusto o sbagliato. Mostrano. Proprio per questo mi piacciono.

La strada è lunga e sembra non finire più. Le ultime case me le sono lasciate alle spalle già da diversi minuti e solo in quei momenti comincio a capire cosa intendessero la sera prima con quel “è un po’ lontano…”. Finalmente arrivo. Le persone dell’associazione si preparano a mostrarci la struttura, cosa succede dentro, i numeri, le nazionalità, i corsi di italiano, l’assistenza psicologica, l’inserimento in stage, tutte cose molto belle ma che non tratterò. Non sono una giornalista, non mi va di entrare in dettagli per quanto importanti. Voglio trasmettere le emozioni che ho provato passando qualche ora in loro presenza.

Foto di Giulia Paratelli

Cominciamo. Jacopo, coordinatore dei progetti di accoglienza per la cooperativa, fa da cicerone e ci porta dentro i tre appartamenti ricavati da una vecchia scuola elementare che ora ospita venti persone. La cosa che mi stupisce subito sono i sorrisi dei ragazzi che ci vivono. Sono felici di aprirci le loro stanze, farci vedere le loro cucine. L’odore di spezie mi pervade il naso, una grossa pentola bolle, lo stendibiancheria colmo di vestiti ad asciugare è posizionato in un angolo buio per non farsi notare, una scarpiera rimasta accidentalmente semi aperta mostra una serie di scarpe tenute perfettamente in ordine. Lì dentro vivono quattro persone.

In un secondo appartamento trovo un ragazzo pakistano, si siede sul divano dopo essersi presentato e mi dice: «Sono un po’ stanco, ho cucinato tutta mattina!». Sorrido, non capisco a cosa si riferisce. Ci sono due ragazzi afgani poco più grandi di me, mi dicono che il viaggio è stato lungo e faticoso. «Ci abbiamo messo tre mesi solo a passare le montagne tra Iran e Turchia. Faceva così freddo lassù!». «Come contattate le vostre famiglie?» chiedo curiosa. Uno di loro alza gli occhi al cielo e scuote la testa, l’altro dice che lui la famiglia ce l’ha ma i pali del telefono sono crollati per la guerra quindi fanno molta fatica a sentirsi. Comincio a sentirmi in imbarazzo. Lo sguardo cade su un foglio appeso al muro: è la tabella dei turni per le pulizie. Deve funzionare bene, il pavimento è così pulito che ci si potrebbe stendere a terra.

Torniamo fuori. La luce del sole è diventata intensa, le nuvole che promettevano pioggia sono scomparse in fretta, senza che me ne accorgessi. Un rumore forte, stridulo viene dall’unica casa nelle vicinanze. Faraone e galline. Mi avvicino a Jacopo e gli chiedo. «La convivenza come va?», lui sorride calmo e mi risponde: «Bene! Hanno inventato uno scambio. I ragazzi tengono il pane secco da parte invece di buttarlo e la signora di fianco lo prende sempre volentieri e in cambio gli da un sacco di uova fresche!». Poi, serio, continua: «alla fine basta conoscersi». Chissà come deve essere il dialogo tra un ragazzo ventenne pakistano o nigeriano e una vecchietta ferrarese?

Con questa domanda la visita finisce e mi rendo conto che sono proprio gli ospiti della casa che hanno cucinato per noi: riso con spezie e ceci, polpette di carne con sugo di pomodoro, peperoni e un piatto africano a base di pollo, carne di manzo e pesce. «È proprio poco poco piccante!» mi assicura il cuoco. Cecilia, una ragazza della cooperativa mi sorride: «Attenta, il loro poco piccante è molto diverso dal nostro!». Troppo tardi. Ho già messo la forchetta in bocca. Resto per il tè afgano servito rigorosamente bollente.

Metto in moto la macchina, parte la musica, il termometro segna 26 gradi, sembra agosto. Riparto ma dopo pochi minuti decido di fermarmi e scattare qualche foto al grano pronto per essere tagliato. Sembra proprio perfetto. Come in una cartolina. Solo allora vedo passare i quattro ragazzi sorridenti che avevo appena fotografato. Vanno veloci sulle loro bici, il loro unico mezzo di trasporto per coprire i tre chilometri e mezzo che li separano dalla prima fermata dell’autobus. Mi salutano e mi ringraziano ancora per le foto.

“Alla fine basta conoscersi…”, penso, avvio l’auto e me ne torno in città.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.