di Marco Gulinelli*

Da quando Chuck Berry urlò per la prima volta da un palco Johnny B. Goode il blues e il rock hanno continuato a correre l’uno nel nome dell’altro come un atto di fede. E in un qualche modo è ciò che feci anch’io.

Potrei confessare quei sogni di ragazzo di quando combattevo per riuscire a stare nel mezzo del guado: ero forse un sordo figlio di sordi? No per niente, tutti ci sentivano benissimo; così alla scuola superiore invece di chiedere al professore di turno di chiarirmi una frase che non avevo inteso e la cui risposta sarebbe stata certamente: “Stai più attento la prossima volta”, decisi lì per lì di non rischiare e di lasciarmi andare al suono sottile e incisivo di un giro di “pentatonica” che arrivava dall’ultimo banco; ricordo, di quel momento, che sentii netta la differenza tra chi di talento ne aveva da vendere e chi, come me, era sempre indeciso e timoroso, mai concentrato su una cosa sola.

Così per sancire la scelta e l’attimo di fede che stavo per compiere, sbirciai dietro di me: nell’ultimo banco stava un mio compagno che, completamente indifferente alla lezione, pizzicava una “eko” appoggiata sulle gambe accavallate, indossava un giubbotto di camoscio e dei Ray Ban a goccia. Il nostro sguardo non faticò a incrociarsi, esibì un sorriso che non si sarebbe mai più cancellato dalla sue labbra e che non tradiva dubbio alcuno su quello che aveva intenzione di fare nella vita. Credo fosse il 1976.

Passò del tempo, dannatamente in fretta, e un giorno del 1985, in cui la primavera era diversa da quella attuale, in televisione davano un programma che era già un “cult”; si chiamava “Quelli della notte” ed a condurlo era Renzo Arbore. Cosa dovrei dire, ora per allora, per non rischiare di essere banale o retorico? Fu grandioso, solo questo, appena Renzo Arbore presentò Roberto Formignani, e la Mannish Blues Band attaccò “Ive got my mojo working” di Muddy Waters, restai bloccato – ancora in quella maledetta metà del guado – indeciso se esplodere di gioia o trattenermi in un religioso silenzio. Scelsi il secondo stato d’animo in un silenzio, reso ancora più tale, dal mistero dell’oscurità della notte di una provincia, la mia, che per un attimo solo, ma lungo abbastanza, collegai a Riverton – un piccolo polveroso paese distante poche miglia da Clarksdale nel Mississippi – dove nacque Eddie James House detto “Son House”; fu così che, a quelle immagini della Mannish Blues Band che suonava in televisione, associai all’istante la  sua versione, solo vocale, della profetica “John The Revelator”: devo confessare che dal testo non ci capii quasi un cazzo, ma la parola “Revelator” mi bastò, e ancora oggi avanza.

Poi il tempo si distese lasciandosi trasportare dal vento – non sempre dolce – degli eventi che hanno caratterizzato la carriera di Roberto Formignani e dei suoi The Bluesmen fino ad oggi.

Mi perdonerà il mio “provider” se vi spaccio una piccola lista, forse confusa ma “rivelatrice” di quanto successo:  trent’anni di Festival Blues in tutta Italia, open act, tra gli altri, di B.B. King e Bob Dylan a Pistoia Blues, gruppo spalla della Missisipi Delta Blues Band, Milano Blues con la Blues Band di Paul Jones e Dave Kelly, il Roots Festival con Tom Russel e Dave Alvin dei Blasters.

Formignani suona con Willie Murphy già chitarrista dei Jefferson Airplane e Van Morrison, per anni collabora con l’armonicista Andy J. Forest e con il cantautore texano Dirk Hamilton, fonda insieme ad altri l’associazione Musicisti di Ferrara e ne diventa presidente, insegna il blues ad almeno un migliaio di ragazzi, nel 1990 insieme con il batterista Lele Barbieri e con il mai troppo compianto bassista Bruno Corticelli fondano il gruppo dei FAX che sfocerà da li a poco – con l’aggiunta dell’armoniscista Antonio D’Adamo, già fondatore della Mannish – nel progetto The Bluesmen, con cui incide quattro album, il quinto appena uscito, che sono cippi iscritti sul ciglio della “main street” del panorama blues italiano ed Europeo. Ecco tanto basta! Il resto andate a leggervelo sul fantastico sito del gruppo.


bluesman-formignani-019E oggi? Beh “The kids are alright” direbbe Pete Townshend e godono di ottima salute aggiungo io: domani, 11 Aprile 2015  la presentazione di Find Yourself, quinto album dei The Bluesmen con la formazione attuale: Roberto Formignani alle chitarre, Massimo Mantovani alle tastiere, Roberto Morsiani alla batteria e Roberto Poltronieri al basso elettrico.

Vorrei potervi dire ciò che penso di questo nuovo cd, ma credo che lo possiate anche immaginare, perciò faccio parlare quel ragazzo con i Ray Ban dal sorriso che ben valeva la promessa di chi sapeva dove era diretto già in quel 1975.


Ciao Roberto, felice?
Come potrei non esserlo, ho letto da qualche parte che i tre fattori fondamentali sono: qualcosa da fare, qualcosa da amare e qualcosa da sperare, ma credo che sarei più felice se i tempi fossero migliori… per la musica e la cultura…

I Bluesmen nascono già in origine con le idee molto chiare: quali sono le chiavi di lettura che daresti oggi del gruppo?
Intanto l’onestà: non ha senso vivere a Ferrara oggi e suonare in modo calligrafico il blues del 1930 di Robert Jhonson ancora con le lampade a petrolio e quant’altro. Siamo nel 2015, dobbiamo vivere questa realtà conciliandola con un canovaccio stilistico che è il blues… questo facciamo con i Bluesmen, niente di più…

Hendrix diceva che Il Blues è semplice da suonare, ma difficile da provare, per quanto mi riguarda è il contrario. Dunque? Da dove cominciamo?
Nessuna delle due, il blues o ce l’hai o no, questo è il dato di partenza, avere il blues non è sempre un vanto, spesso è un problema perché vuol dire che ti sono capitate cose non belle, uscendo dalla definizione modaiola che diamo al genere: forse sarebbe meglio non averlo il blues… Ho scritto tempo fa un brano che si chiama “Balkan Blues”, parla dei Balcani e di quando ti buttano le bombe in testa… in quel caso ti assicuro c’è blues!

“Find yourself ” è un titolo importante, introspettivo, che contrasta con lenorme energia che sprigiona questo nuovo album, si spazia dal blues al rock senza schemi preordinati con ancora ben vivo il senso di ribellione.
Dopo trent’anni di gavetta il non essersi seduti e avere ancora voglia di fare musica senza troppe aspettative, quindi con la disillusione di qualsiasi miraggio, penso contenga una forte dose di ribellione.

“Time is gone… disillusion”? Canti con autorità nel pezzo di apertura dellalbum, e il secondo brano è subito lì quasi senza pausa: un monito e un invito?
Entrambi i due brani hanno un collegamento spirituale: “Disillusion” è un brano politico perché denuncia il fatto che non vi sia più la voglia di stare insieme e combattere per una giusta causa, ed oggi ce ne sarebbe più di una; il secondo brano ti dice che nonostante si sia smarrito tutto… almeno cerca te stesso.

Cosa rende un pezzo un classico? Per esempio il quinto pezzo dellalbum How long blues, in cui mi ricordi le tonalità del primo Tom Waits…
Beh è l’unica cover dell’album ed è un brano del 1928 inciso da Leroy Carr, il fatto che poi influenzò crooner come Nat King Cole e Ray Charles l’hanno reso un classico: per me i classici sono quei pezzi che in realtà tu non vorresti mai suonare e cantare perché sono troppo difficili, poi a un certo punto ti dici perché non farlo, e lo provi a cuor leggero perché se anche non ti soddisfa non lo inserisci, ma poi invece viene benissimo e lo lasci.

Un sound quello di Find yourself senza vaneggiamenti, senza look alla moda, musica e basta e mi pare poter dire più diretta allindividuo che alla massa che ne pensi?
È vero, nell’album Wild in the country c’è un pezzo dal titolo We don’t have what you want, nel senso che se vuoi della musica commerciale noi non ce l’abbiamo, suoniamo quello che ci piace senza stare alle regole del mercato discografico; poi qualcuno dirà: cosa fai i dischi a fare? Beh sarebbe come chiedere a grandi maestri dell’arte, morti comunque poveri – prendi Ligabue per esempio – perché continuarono a fare quadri per tutta una vita? Io penso perché ne avevano l’esigenza, punto e basta.


Se dovessi dedicare due pezzi ai tuoi ex compagni Bruno Corticelli e Dad
à Antonio D’Adamo quali sceglieresti?
La band di fatto nasce da noi tre, poi ci sono stati tanti cambiamenti e tutto il resto… resteranno sempre parte di noi.  Ultimamente, per non soffrire dell’assenza di Antonio, abbiamo composto pezzi in cui l’armonica non ha niente a che fare con il brano. Quello che mi sento di dedicare a Dadà è Find yourself, mentre Bruno si sarebbe divertito tantissimo a suonare Seven Bars

Ti definirei un “anarchico” perché non sembri aver avuto gerarchie o i meccanismi preordinati del business: qual è la tua utopia, la soluzione per liberarci da questa cappa di ignoranza? Scommetto che ha a che fare con il blues.
Con il blues certo e con tutta la musica “buona”! si dovrebbe fare di più per rendere i giovani più sensibili ai temi sociali e culturali di comune interesse, e siccome il fine giustifica il mezzo, la musica è un mezzo perfetto per far sì che questo accada… la mia utopia è “l’individuo sensibile”.

Qualcuno disse : il rock non risolverà i tuoi problemi ma ti permetterà di ballarci sopra, cosa prometti per la performance di presentazione dellalbum alla Sala Estense?
Niente e tanto di che, nel senso che faremo un concerto che spera di rispecchiare le aspettative d’ascolto dell’album, oltre a noi ci saranno degli strumentisti che suoneranno i violini, banjo, mandolino: molto eclettismo… la presentazione di un disco è sempre un po’ come il “Ballo delle debuttanti”. Ci tengo però a dire che il prezzo del biglietto comprenderà in omaggio il cd di Find Yourself… ecco direi che è proprio tutto!

* Marco Gulinelli nasce nel 1960 in una stazione di servizio durante uno degli innumerevoli viaggi del padre, sviluppa e assimila le immagini della sua infanzia che ne segneranno le passioni per tutta una vita: musica, fotografia e letteratura. Fotografa i protagonisti della musica dal rock al jazz passando per il blues a partire dagli Anni ‘80 pubblicando foto su riviste locali e nazionali, autoproduce video per un decennio, partecipa a diverse finali nella sezione indipendenti a concorsi nazionali, nel 2013 pubblica il suo primo libro “La perizia”. Vive e lavora a Ferrara.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.