«Se ognuno percepisce i fatti come vuole, questi non si tramutano in realtà, ma in un racconto della realtà. Una realtà che spesso è quella che vogliamo che sia: una sorta di gioco che ci auto-raccontiamo. Perciò prima di parlare dei fatti dovremmo intenderci su cosa capiamo di quello che ascoltiamo e che leggiamo. Velodimaya parte da qui».

Natalino Balasso ritorna a far ridere il teatro De Micheli di Copparo con uno spettacolo sul nostro modo di pensare e di intendere la realtà, che racconta in chiave comica la contemporaneità. Tutto parte da Arthur Schopenhauer. Per il filosofo tedesco esiste un velo, il velo di Maya appunto, creato dagli Dèi per nascondere all’uomo la realtà autentica delle cose. A questa teoria, Balasso apporta la sua: «ognuno di noi ha un ‘puffo proiezionista’, che ci proietta in testa quello che vogliamo vedere e che vogliamo sentirci dire. Così apponiamo altri veli sopra alle cose, che diventano il telo cinematografico del nostro personale film». Abbiamo incontrato Natalino Balasso per saperne di più.

Dai miti greci al buon vecchio Schopenhauer. La faccenda si sta facendo seria?
«Più che seria, drammatica! Fin da quando siamo piccoli, ci viene insegnato a distorcere la realtà. Ci viene spiegato che il mondo vive su dei confronti, e questo innesca il meccanismo della competizione. Sono rare le scuole che evitano di usare i voti, generalmente l’educazione si basa invece sul giudizio, che serve a stabilire se sei adeguato – e quindi allineato – o meno alla società in cui vivi. Questo ovviamente crea delle distorsioni, per cui abbiamo le nostre classifiche mentali in cui c’è gente che vale di più e gente che vale di meno. Ci sono tutti i nostri giudizi sul mondo, basati solo sul merito e non funzionali».

Questo giudizio sul mondo è caratteristica del nostro periodo storico o c’è sempre stato?
«Tutto inizia quando i nostri antenati scoprono che ci sono territori migliori di altri, luoghi più utili di altri. Ciascun gruppo – che si sente ovviamente il migliore – difende il proprio territorio e vede come avversari gli altri. Il meccanismo è sempre lo stesso, ma fatichiamo a capirlo perché lo rivestiamo con dei racconti e allora ecco che c’è il patriottismo, c’è l’orgoglio, c’è la forza, c’è il coraggio. Se ci pensiamo tutti questi elementi sono finalizzati solo alla guerra, a difendere il proprio spazio e il proprio gruppo. Tutto questo mentre l’altro gruppo sta facendo lo stesso esatto ragionamento nei nostri confronti».

Foto di Andrea Bighi – Selezione di Foto di Carmen Ciclamini

Tra i vari, Schopenhauer non era proprio il più ottimista sul genere umano. Viveva da solo, con un barboncino. Personalmente me lo immagino in penombra, mentre scruta il mondo da dietro la tenda, dicendo lapidario: “Vedi barboncino, la vita è un pendolo che oscilla tra privazione e noia. Ci possono essere attimi, barlumi di felicità, ma non fidarti, è mera illusione”. C’è una soluzione a questi veli/racconti?
«Secondo me non c’è soluzione perché non c’è un problema. Ci sentiamo tutti eterni, ma non lo siamo, allora a questo punto non rimane che capire cosa stiamo facendo e perché. C’è chi cerca di sopraffare gli altri attraverso il racconto del lavoro, per esempio. In verità ci sarebbero tante cose belle che noi evitiamo, alla ricerca di qualcosa per noi più bella – una cosa che chiamiamo felicità – che non ci siamo ancora accorti essere solo un racconto, una categoria della nostra mente. Siamo tutti convinti che le cose le facciamo perché le abbiamo scelte, mentre la mia visione è che tutto nella vita avvenga più o meno per caso e che l’unica cosa che potremmo veramente fare è cercare di evitare di far soffrire gli altri, ma a quanto pare non sembra ci interessi poi tanto».

In altre occasioni l’ho sentita parlare della differenza tra resistenza ed emergenza, come vede la situazione italiana?
«Parlando dell’Italia, siamo il Paese dell’emergenza ed è evidente che questa situazione conviene a qualcuno, è un altro racconto ancora che ci viene fatto credere. E mettere la gente in allarme significa anche controllarla. Dire che c’è un’emergenza terrorismo – guarda quanto si usa il termine terrorismo, oggi – significa creare l’idea che qualcuno ti possa uccidere da un momento all’altro ed è chiaro che così si crea un popolo controllabile, al quale si possono raccontare un po’ di cose. Se continuiamo a essere vittime degli annunci, dei proclami e delle emergenze, non ci faremo mai un’idea su come pianificare il nostro futuro. Qualcuno si è accorto – e per qualcuno intendo le élite, quelli che fanno i soldi veri e che nemmeno conosciamo, nemmeno vediamo – che pianificare il futuro non significa guadagno, perché per loro c’è un guadagno effettivo solo quando il futuro della popolazione è incerto».

È difficile raccontare l’oggi?
«Che sia raccontare l’oggi o il ieri, quello che mi interessa è cercare nuovi punti di vista. È per questo che ho smesso di fare tv, perché non mi ritengo un impiegato della risata, non mi interessa un lavoro ripetitivo in cui rassicurare la gente sul fatto che farò sempre la stessa cosa per i prossimi cinquant’anni. Non che io ritenga di fare cose utili per gli altri, anzi, ma a proposito di Schopenhauer e del suo cagnolino, in verità Schopenhauer voleva che la gente leggesse quello che lui scriveva, che ascoltasse quello che lui aveva da dire».

Un po’ tutti i filosofi, in verità…
«Se la tirano, diciamo pure che se la tirano! Alla fine abbiamo bisogno degli altri, c’è poco da fare. Siamo l’essere più collaborativo della terra, che difficilmente si esprime in assenza di altri esseri umani. Per questo sono convinto che anche Schopenhauer sarebbe stato un assiduo frequentatore di Facebook… All’inizio dello spettacolo parto dai primitivi e dico che loro si riunivano nella caverna più ampia, attorno al fuoco, e uno iniziava a raccontare delle storie. Lì inizia qualcosa che nei millenni si trasformerà in quello che noi chiamiamo teatro. Il teatro non è però quello che dovrebbe essere, il teatro è quello che succede. È l’unica forma d’arte in cui c’è bisogno di contemporaneità, di viventi. Posso andare al cinema e vedere un film con attori ormai morti, posso andare al museo e vedere quadri dipinti da pittori morti raffiguranti gente morta, mentre a teatro bisogna essere tutti più o meno vivi. Il problema è quanta voglia abbiamo di essere vivi e di contare. Di solito per contare noi pensiamo che basti urlare, che basti affermare la nostra opinione. Invece più ci mettiamo in connessione, più la rete si amplifica e più diventiamo potenti. Questo però facciamo fatica a capirlo perché ci viene fatto credere che si ottenga di più ad essere egoisti e quindi chiusi».

E a proposito di reti, lei è molto seguito su Youtube e sul suo sito si definisce ‘Un commediante nella rete’. Nella Rete c’è andato o nella rete c’è finito?
«Negli anni ’70, al Giro d’Italia c’era questo gergo: quando alcuni ciclisti andavano in fuga distaccandosi dal resto del gruppo, quest’ultimo si organizzava per inseguirli. Una volta raggiunti, il cronista diceva “ecco il primo che è finito nella rete”, poi “anche il secondo è nella rete” o “ecco che la rete ne ha pescato un altro”. Si sentiva una sorta di strascico che ho sempre trovato molto divertente. Nella rete alla fine ci finisci, non è che ci vai. Ci finisci, volente o nolente. Poi, secondo me, una volta dentro devi capire cosa puoi fare: puoi essere passivo o cercare appunto di aprire delle connessioni, amplificando questa potenza. Ciò vuol dire anche essere capaci di metterci la faccia nelle cose. Io lo faccio nella vita, ci metto la faccia. Avrei potuto schierarmi con una formazione, invece preferisco sempre cercare risposte alle cose senza affidarmi a dei gruppi di riferimento, senza essere etichettabile. Per questa scelta ti prendi anche un sacco di insulti sui social, ma io me ne frego, perché in fin dei conti nessuno ti offende se non ti offendi tu».

Listone mag è un magazine che parla di Ferrara. Cosa ne pensa di questa città?
«A Ferrara vengo spesso, lì ho degli amici molto cari. È una città che ricordo molto volentieri e di ricordi ne ho tanti. Quello che mi spiace di più per una città come Ferrara è che non ci sia speranza. Per le metropoli, per quelle sì non c’è più alcuna speranza. Io sono convinto che il futuro sia nella provincia, è l’unico posto dove puoi veramente fare qualcosa. Quindi se penso a Ferrara, penso alla speranza».

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