Dalla somma di due solitudini quale numero salta fuori? Dopo avere assistito all’omonimo spettacolo teatrale, giovedì 12 marzo, al ‘De Micheli’ di Copparo, verrebbe quasi da rispondere pronunciandone il titolo. ‘Novantadue’. Scritto a lettera però. Perché la vicenda di due uomini di Stato così profondamente soli e la distanza ormai ventennale di quei fatti dalla nostra realtà in continuo divenire, non si ritragga in un’asettica e sintetica doppia cifra. Ma possa trovare uno spazio più ampio, come il palcoscenico di un teatro, per essere raccontato nella sua umanità.

Dallo sguardo filtrato dalla mia adolescenza, il 1992 era un contenitore di tante cose. Dagli amici alla scuola, passando per il calcio. Difficile incontrare e riconoscere il male, con gli strumenti di quell’età. E allora, in un giorno di quel maggio primaverile, decisi quali fosse uno dei volti del male. Le sue sembianze dovevano essere quelle del calciatore olandese Ronald ‘Rambo’ Koeman. Un mercoledì sera, a Londra, frantumò i sogni di una squadra genovese dalla divisa blucerchiata, allenata da un saggio e rassicurante ex giocatore serbo. Come un killer spietato, Koeman trafisse un portiere bolognese e la sua barriera, strappando a quei tifosi italiani la gioia per la coppa dalle grandi orecchie e regalandola a quelli del suo Barcellona. Una punizione al centododicesimo minuto, battuta con il colpo dello specialista. Era il 20 maggio 1992. Non sapevo che tre giorni più tardi, il male, quello autentico, avrebbe divorato ben più nobili ideali, usando la potenza deflagrante dell’esplosivo, nei pressi di uno svincolo autostradale, a pochi chilometri da Palermo. La ferocia di quell’attentato ai danni di un giudice siciliano e della sua scorta ebbe la forza di destarmi dal torpore adolescenziale, conficcandosi nella memoria di uno studente che fino a poco prima si aspettava soltanto l’arrivo dell’estate.

Foto di Francesca Susca

E le note della canzone ‘L’estate sta finendo’ introducono con la loro scia lo spettacolo scritto da Claudio Fava, diretto e allestito da Marcello Cotugno, e prodotto da Bam Teatro. La musica accompagna due amici alle prese con la battitura a macchina di un testo. Dal tenore della loro conversazione, sembrerebbero due colleghi universitari poco prima di un esame. La dimensione umana della loro amicizia scopre tuttavia presto la realtà. Giovanni e Paolo sono Falcone e Borsellino. A interpretarne i ruoli, Filippo Dini e Giovanni Moschella. Sullo sfondo, il carcere dell’Asinara, dove i due magistrati si trovano per lavorare al maxiprocesso contro la mafia. Intorno a una scrivania, illuminata da una corrente elettrica che di tanto in tanto arresta il suo circuito, c’è posto per tante cose. Il dovere delle carte, lo svago di una sigaretta, il senso di alienazione che suscita il linguaggio tecnico dei verbali, la terza persona singolare del passato remoto del verbo attingere, lo sfogo che non culmina nella delusione, l’abnegazione al lavoro nonostante l’ottusità della burocrazia, i ricordi delle partite a pallone all’oratorio, la lucida ironia. E l’amicizia.

In diverse occasioni, pellicole e fiction televisive si sono soffermate sulle figure dei due giudici ponendo l’accento anche su una loro dimensione privata. Eppure la capacità evocativa che raggiunge il teatro restituisce il senso di un legame come difficilmente ci riuscirebbero altre forme di rappresentazione. Dialoghi e monologhi si articolano in un flusso continuo dove la cronaca giudiziaria si coniuga alle esigenze della narrazione. A fare da contraltare a una esigua presenza di personaggi, c’è una pluralità di avvenimenti raccontati. Dalla decapitazione di un clan all’ascesa di un nuovo gruppo criminale, fino alle confessioni dei collaboratori di giustizia. Fabrizio Ferracane è colui che interagisce con gli altri due attori. Ora veste i panni di un collega magistrato, ora quelli di un malavitoso. Al centro della scena permane una scacchiera, e all’insidia del nemico dichiarato si aggiunge l’ambiguità della zona grigia.

«Lo Stato esiste e noi qua lo rappresentiamo», ricorda Paolo all’amico Giovanni, mentre è intento a fare i conti con i tasti della macchina da scrivere. Dopo una battuta e l’altra fra i due, Giovanni arriverà a chiedersi «come si fa a non restare soli in questo Paese?». Il dramma della vita non permette al tempo di trovare risposte. Lo stesso dramma che ai due protagonisti rende allergico il vocabolo ‘eroe’. Ma a cui invece non risparmia il significato di un altro vocabolo, ‘dolore’.

Paolo lo sperimenta nel momento dal tasso forse più emozionale della pièce. Quando realizza la notizia della morte dell’amico fraterno. Disperazione e compostezza camminano lungo lo stesso sentiero. Le ultime riflessioni sono affidate all’idea della morte di cui il popolo siciliano è impregnato, insieme all’amara constatazione che a volte i mafiosi sembrano «le uniche persone razionali in un mondo popolato da folli».

Il buio del palcoscenico cede il posto al suono degli applausi. In molti sono giovani studenti universitari. Fra le prime file, c’è una mano che impugna un libro e lo solleva idealmente verso il palcoscenico. Sembra l’agenda rossa di Paolo Borsellino.

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