È semplice.

In pratica, come in ogni lingua, abbiamo delle regole, delle regole che valgono in generale. L’italiano è in continua evoluzione, tant’è che aggiungiamo vocaboli di uso comune a ogni edizione di vocabolario, anche se magari la prima volta che sentiamo una parola nuova storciamo il naso o ci guardiamo intorno per capire se è un errore.

Ecco, mettendo insieme questi due dati, si potrebbe tranquillamente vivere senza porsi alcune questioni apparentemente accessorie ma che nel lungo, lunghissimo periodo, scavano distanze che poi è difficile accorciare. E con questioni accessorie si intende l’usare parole semplici, di uso comune, come lo possono essere ministra, avvocata, idraulica, tecnica, montatrice, informatica e via dicendo, parole che siamo abituati a sentire al maschile. Invece dei più appropriati ruoli professionali al femminile. Non è per pignoleria che si insiste sull’importanza della femminilizzazione di alcuni termini, è per una questione molto semplice e lineare: se non nomini una cosa, se non le associ un vocabolo, o se il nome è impreciso, ecco, quella cosa non esiste o non è rappresentata bene.

Diventa evidente quando si legge nelle colonnine di destra dei quotidiani online che una coppia francese prova a chiamare la figlia Nutella, e che per fortuna un giudice li riporta con i piedi per terra sostenendo che un essere umano non può dividere il nome con una crema spalmabile in commercio. È quello straniamento lì, applicato alle professioni al femminile, quella separazione tra la quotidianità e la lingua che misura quanto siamo distanti dal rappresentare al meglio quello che esiste.

Se ne è accorto anche il Comune di Ferrara, insieme a pochi altri comuni italiani, che sta lavorando per modificare linguisticamente la sua modulistica, lasciando spazio al maschile e al femminile laddove non si può aggiungere solamente una A o una O da barrare. Ci sta lavorando l’assessorato alle Pari Opportunità per fare in modo che le pari opportunità lo siano davvero. E pazienza se sembra troppo poco, perché se non si comincia dalla vita di tutti giorni difficilmente si può cambiare direzione. È stato esposto in maniera molto chiara dal professore Hugues Sheeren durante l’incontro del ciclo “Non è un paese per donne” dedicato al ruolo professionale della donna, questo meccanismo per il quale portiamo avanti, tutti, una discriminazione linguistica senza nemmeno farci caso. O se ci facciamo caso, è perché suona male. Ministra? Sindaca? Tecnica? E pensare che grammaticalmente è tutto corretto. Cioè, l’italiano prevede delle regole per volgere al femminile i termini, e questa regola si può applicare senza paura; ci sono un paio di casi dubbi, ma sono, appunto, un paio di casi.

Questa disparità lessicale allora non è data da come è fatta la nostra lingua, ma da come la usiamo – al di là di ogni scontatissima battuta. Veniamo da una società con una forte impronta patriarcale, dove le donne erano relegate a un ruolo domestico, quindi privato, quindi importante sì, ma ufficialmente invisibile. E allora è chiaro che le donne medico erano un’eccezione, come le donne ministro o le donne idraulico, e le parole bastavano al maschile con qualche precisazione in caso contrario, il pensiero che un giorno il fenomeno avrebbe potuto consolidarsi e diventare normale probabilmente non sfiorava nessuno. Anni dopo possiamo permetterci di riconoscere che c’è stato un cambiamento drastico nella presenza pubblica femminile, perciò al netto di qualsiasi ideologia è sensato mettere quella magica vocale o quel conturbante suffisso alla fine di ogni lemma.

Perché poi si crea quello spiacevole vortice di cui si è parlato, sempre durante l’incontro, che spinge le professioniste a definirsi al maschile, che sembra quasi una rivendicazione paradossale, come quando dicono che una donna è brava perché ha le palle. Blackout biologici. Per dire, usare categorie che esistono già per affermare la propria esistenza è un modo un po’ violento di annullare le differenze. Quindi basta poco, un minimo di attenzione in più, o banalmente la voglia di farsi guardare storto da qualche purista retrò.

2 Commenti

  1. azz scrive:

    Interessanta questa articola

  2. Che sorpresa vedere la mia scultura “Veli pastello” a corredo di questo articolo di Listone! Presumo sia sottinteso dall’autrice l’annoverarmi tra le donne che fanno un mestiere prevalentemente maschile, ovvero usare sgorbia e mazzuolo. Però mi sono sempre definita “scultrice”, declinandolo senza ombra di dubbio! Ora però la scultura su legno è molto meno esclusiva maschile di quando, trent’anni fa, mi sono presentata al simposio di scultura in legno di Cortina d’Ampezzo con Angela Pasini ed eravamo le prime due donne a cimentarsi ..
    Grazie ancora a Pier Paolo Giacomoni della splendida foto!

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