Il treno in ritardo quando stiamo andando al colloquio più importante della nostra vita, il cellulare che finisce nella tazza del water proprio mentre aspettiamo la telefonata decisiva, il collega malato che ci obbliga a disdire il volo già pagato per Tunisi, il dito mignolo del piede che si rompe un giorno prima della trasferta di lavoro più bella di sempre. Qual è il segreto per sopravvivere alle piccole catastrofi che capitano ogni giorno? Esiste una ricetta, un’abracadabra, una formula per non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà quotidiane, dagli ostacoli che puntualmente ci fanno faticare dieci volte per arrivare dove volevamo arrivare?

Paolo Nani prova a rispondere a questa annosa domanda con il suo ultimo spettacolo, venerdì sera sul palcoscenico di Occhiobello, un monologo continuamente interrotto da battute perse per strada, luci che si inceppano, scenografie che crollano o esplodono, parrucche che non si trovano. Il protagonista sul palco presenta il lavoro come “un Amleto shakespeariano sperimentale espressionista”, nel quale limitatezza umana e determinazione eroica vanno a braccetto – per quanti incidenti possano succedere nulla lo farà desistere dal proseguire la rappresentazione.
L’artista contrappone la dimensione controllata del teatro all’incontrollato e incontrollabile caos di cui si compone la vita, facendo ridere lo spettatore con innumerevoli gag e virtuosismi comici, al tempo stesso ponendolo di fronte a un interrogativo fondamentale: siamo poi così sicuri che le piccole catastrofi siano un problema? Se non ci fossero staremmo veramente meglio? Se tra l’amore della principessa e del principe non si infilasse l’azione drammatica del drago… che storia sarebbe?

Nani personifica il conflitto, strabuzza gli occhi e caccia la lingua di fuori, agitandosi come il più temibile dei mostri, come solo uno splendido bambino di quasi sessant’anni potrebbe fare, giocando con i propri pupazzi. La risposta è una sola: senza il drago non ci sarebbe nemmeno la storia, il conflitto è necessario sempre, sia nel teatro che nella vita. E l’unico abracadabra possibile per sopravvivere agli ostacoli è quello di danzarci in mezzo, tra consapevolezza e leggerezza. “Il segreto è l’equilibrio”, confida al pubblico il teschio parlante di quest’Amleto decisamente sui generis.
“Costruendo questo spettacolo, che è ancora in fase di elaborazione, io e il regista Valentino Dragano ci siamo chiesti: vogliamo metterci una morale? Sappiamo veramente cosa serve alla persone per sopravvivere alle piccole catastrofi? L’equilibrio ci è sembrata la cosa più equilibrata che potevamo dire e non abbiamo voluto andare più in là. Non siamo mica il Dalai Lama”.

Listone Mag ha intervistato Paolo Nani nel weekend, approfittando del fatto che dopo la data di Occhiobello l’attore si sarebbe fermato nel capoluogo estense per condurre un workshop di costruzione della scena, organizzato presso il teatro Ferrara Off. Nota di colore: nel programma del corso anche “studio di video con un occhio allo stile, da Pina Bausch all’Era Glaciale, da Shakespeare e Shrek”.

Come è cominciata la sua vita da attore?
Sono nato al Barco, la mia famiglia sta ancora qui. Prima ero un artista visivo, dipingevo, m’interessava tutto tranne il teatro. Quando nel 1976 vidi uno spettacolo dell’Odin Teatret a Modena, ad un festival, rimasi fulminato. Ho pensato: voglio fare queste cose qua, ma nei paraggi non c’era niente di simile. Poi nel 1978 arrivò il Nucleo, e cominciai con loro. Tutto il mio lavoro d’attore viene da lì, senza quell’esperienza non avrei scoperto la mia strada, sarei rimasto un artista frustrato. Con il Nucleo per dieci anni abbiamo portato in giro per l’Europa “Luci”, oltre a diversi altri spettacoli al chiuso. A Ferrara avevamo un nostro fan club, un pubblico di appassionati che ci amava, quello che facevamo non era esattamente un genere che attirava le masse.

Nel 1990 si è trasferito in Danimarca, adesso abita a Vordingborg, cittadina di ventimila persone. Com’è successo? Il passaggio è stato facile?
Eravamo in tournée quando un mio vecchio amico – avevamo studiato un anno assieme – mi chiese di raggiungerlo in Danimarca, mi disse: vieni qui che facciamo una cosa comica. All’epoca al Nucleo c’era poco spazio per il comico, con loro si faceva un lavoro molto fisico e iperdrammatico. Mi sono trasferito lì e non me ne sono più andato, le donne sono belle, ora sono nonno. Il passaggio è stato più dolce di quello che avrei potuto immaginare. Mi aspettavo della gente fredda invece ho trovato cordialità e ospitalità, tutti si danno del tu. Cambia molto l’atteggiamento della gente quando anche al poliziotto si dà del tu. La cosa comica che abbiamo fatto è “La lettera”, spettacolo che negli anni ha girato praticamente tutto il mondo, con oltre mille rappresentazioni.

Foto di Denise Ania

Non si è mai annoiato di quello spettacolo?
Mi sono capitati dei momenti di crisi, specialmente quando facevo solo quello. Quando ho creato altre cose anche “La lettera” ha ripreso a funzionare. Come artista, per continuare ad essere vivo, devo usare altri colori. Altrimenti tutto si appiattisce. Sicuramente ha aiutato il timing: io so esattamente cosa farò ma non so mai come, è come il jazz, si gioca ogni volta.

Da dove arriva l’idea alla base di “Piccole catastrofi”?
L’incidente è qualcosa di archetipico. Sul palco faccio succedere tutto quello che non deve succedere. Il bello è che posso anche dimenticare il testo e non c’è nessun problema. Negli anni ho studiato spesso gli slapstick, gli incidenti. Metterli in scena è un’arte che pratico durante gli spettacoli, ho pensato di realizzarne uno solo su quello, usando questo strumento per parlare anche del teatro, per stimolare letture su livelli diversi. È stato stimolante e continueremo a elaborarlo, a inzepparlo.

Che effetto le hanno fatto, da ferrarese trasferito all’estero, i cambiamenti che negli anni hanno coinvolto la città?
Quando tornavo le prime trovavo sempre qualcosa di diverso, che spesso non mi piaceva. Ultimamente sono rimasto qua più a lungo, per stare vicino a mia madre, e devo dire che la città mi è piaciuta. Il centro è rimasto protetto e conservato, attorno si è costruito, si è allargato. Va bene, questo è il percorso che deve essere. La prima volta che sono andato al cinema multisala sono stato sorpreso, ma è stato bello vedere il film su quello schermo enorme.

Cosa consiglierebbe a un diciottenne ferrarese con la passione del teatro?
Gli consiglierei di andare in giro, ci sono ottime scuole, ottimi spunti. Bisogna vedere il più possibile. Se resti fermo ti infili in un ciclo vizioso, vedi solo quelle tre cose. Per crescere bisogna allargarsi, ampliare le proprie possibilità. Storicamente l’innovazione è legata alla connettività. Mi è capitato, ad un dibattito organizzato a San Marino, di ascoltare un ragazzo lamentarsi che i giovani oggi sono costretti ad andare all’estero per lavorare, parlava della cosiddetta fuga dei cervelli. Ma per andare all’estero basta fare cinque chilometri! La gente deve girare, cercare con chi collaborare, mettersi in contatto con le migliori menti, perché sono quelle che ti devono far crescere e in genere non le trovi davanti a casa.

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