Certi giorni sarebbe meglio tapparsi in casa per limitare i danni entro i confini sotto il nostro controllo. Succede quando sei sul divano, vai in cucina a prendere qualcosa e appena ci arrivi non ricordi cosa dovevi prendere. Oppure quando stai scrivendo un sms destinato a Y che parla male di X. Per qualche motivo infame lo mandi proprio a X. Ebbene, cammino sovrappensiero sulla strada per il teatro, immerso nei miei ragionamenti serali. Praticamente un’ameba che arriva d’inerzia alla biglietteria senza ricordarne la ragione. All’improvviso noto la locandina ed emergo dall’apnea rivolgendomi alla signora con la prima cosa sensata che mi viene da dire: “Mi chiamo Pierfrancesco Favino, sono qui per lo spettacolo”. Panico. Vengo accompagnato verso i camerini. Durante il tragitto realizzo l’entità del guaio in cui mi sto cacciando. Con la scusa che ho dimenticato mia figlia di sei mesi in macchina esco e rifaccio il giro come la gente normale. A volte davvero non so cosa mi dice la testa.

Guardando lo spettacolo sospetto che anche gli autori fossero sovrappensiero quando hanno avuto l’idea di proporlo, ma a loro favore gioca l’astuzia e il benestare del pubblico. Mi riferisco a “Servo per Due”, ispirato ad un classico di Goldoni e ripreso dall’adattamento realizzato qualche anno fa dall’inglese Richard Bean con “One Man, Two Guvnors”. La mossa più riuscita è in assoluto l’apertura con un concerto del quartetto swing “Musica da Ripostiglio”. Per qualche minuto penso che tireranno tutta la serata per sostituire l’annullamento dello spettacolo in seguito ad intossicazione alimentare dell’intera compagnia Danny Rose. Fosse per me aprirei qualsiasi cosa con un quartetto swing: commedie, tragedie, funerali, partite iva, scatolette di tonno. Concluso il concerto parte l’allegra carrettata con il consueto repertorio di equivoci e malintesi, contrappunti clowneschi e stacchetti danzanti, il tutto condito da un vago dileggio al fascismo nella cornice di una Rimini negli anni trenta.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Nella prima parte emerge il Truffaldino Favino nelle vesti di Pippo, servo disperato senza un soldo, un po’ tocco e affamato. Il suo obiettivo è quello di mangiare a sbafo e racimolare un po’ di grana con l’inganno. Gli attori sono molto abili nel far ridere il pubblico senza sosta, in particolare quando Favino decide di coinvolgerlo attivamente. Appena scende dal palco alla ricerca di candidati in platea vado in paranoia, mi sale un rigurgito di qualcosa che credevo digerito da anni: ai tempi della scuola media c’era sempre lo stronzo di turno che doveva ridicolizzarmi davanti alla classe intera. Questa volta però vengono cavati dalla poltrona altri spettatori, fortunatamente non finisce a mazzate come a scuola, anzi. L’apoteosi si raggiunge quando viene scelta una donna dalla prima fila. Dopo alcuni minuti nella sua imbarazzante paralisi sul palco durante la più animata delle scene, gli eventi fanno sì che compaia un estintore. Non dirò altro per non svelare il seguito della faccenda, ma il pubblico sembra scioccato più che divertito. Una delle trovate più riuscite di tutta la serata.

In generale la comicità è più affine a quella dei cinepanettoni meglio riusciti, con un tono da varietà farsesco. La platea si diverte parecchio, nonostante o probabilmente anche per merito dei comodi doppi sensi sessuali e varie strizzatine di palle, a quanto pare inevitabili in un riadattamento moderno del Goldoni o se vogliamo, più in sintonia con l’antica commedia dell’arte.

Nella seconda parte Pippo si è finalmente sfamato, ora ha intenzione di soddisfare ben altri bisogni. Ci riuscirà, ma le soluzioni intraprese non sono incalzanti ed efficaci come prima. La scelta è voluta, ma si ride un po’ meno, senza capire dove si voglia andare a parare. Il culmine di tale incertezza si raggiunge verso il finale, a quasi tre ore dall’inizio, quando sullo sfondo del palco compare questa nave ciclopica che avanza. L’unico che ride è Fellini, dentro un megafono. Un sottile tributo ai fratelli Lumiere, il treno che sfonda lo schermo e conclude lo spettacolo nel pandemonio generale. In realtà la commedia avanza ancora un po’, si torna al fragore delle risate precedenti soltanto quando parte l’applauso finale.

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