EROINA

Campagna informativa contro le dipendenze, "L'eroina non cade dal cielo"; foto da "Porto Ferrara", n.8, 1982Erano i primi anni Ottanta. Ero sul listone con tre miei amici, eravamo due ragazze e due ragazzi.  Abbiamo preso l’acqua per farci alla fontanella che adesso non c’è più, l’hanno tolta prima dei lavori, qualche mese fa. Quella fontanella era il rifornimento idrico di tutti i piccioni e i cani della piazza, e anche dei tossici. Siamo andati a collassare nei giardini che stanno dietro alla galleria, sono dovuti venirci a prendere con l’ambulanza.

Racconto di un lettore

Foto da “Porto Ferrara”, n.8, 1982, Campagna informativa contro le dipendenze, “L’eroina non cade dal cielo”

 

MICRONEGOZIO

Fototeca dei Musei Civici di Arte Antica di FerraraNegli anni Cinquanta s’affacciava sul listone, accanto al cinema Nuovo, il mitico bar Moka; era attiguo al grande negozio di tessuti ed abbigliamento di Alberto Cottica, con un ben visibile doppio accesso sulla piazza. Fra i due ingressi sorgeva, incastonato come un brillante, un micronegozio: il Piccolo Parigi la cui vetrina stracolma di quelle che per me, allora bambino, erano magiche meraviglie, oggi solo improbabili souvenir luccicanti e paccottiglie varie. Fra il cinema Nuovo ed il negozio di Cottica, sorgeva ed è ancora viva, la farmacia Sempreviva.

La festa per me era la domenica mattina: mio padre era commesso presso la Ditta Cottica, mi portava al Moka in quanto amava incontrare gli amici fuori dal lavoro. In questa magica fucina del caffè, sempre affollato, unico bar sul listone, accoglieva i clienti un pungente mix odoroso di vaniglia, fumo di sigarette, odore di caffè torrefatto. Io d’inverno prendevo il latte con la schiuma, d’estate il Pinguino con stic di legno ricoperto di gelato, distrattamente ascoltavo i clienti parlare della Spal che al pomeriggio avrebbe giocato, ma a me non me ne fregava nulla, mi piaceva osservare. Ricordo i denti di metallo del barista vestito con un camicione di nero, capelli imbrillantinati, con una chiacchiera fluente ricca di battute buffe e grasse. Il bancone del Moka era di legno scuro con qualche modanatura cromata e vetrinette varie, per me una sorta di macchina sbuffante aldilà del quale avvenivano magici rituali da cui uscivano cose buone preparate da un orco buono.

Racconto di Paolo Orsatti

Foto da Fototeca dei Musei Civici di Arte Antica di Ferrara

LA BICI RUBATA

Foto di Valerio Di Mauro

Scesi dal treno stordito. Un interminabile viaggio che dalla Puglia afosa mi aveva condotto a Ferrara per studio. Nel lungo viaggio conobbi una signora con la quale discutemmo del piacere di girare in bicicletta, delle diverse tipologie e delle varie marche. Nacque in me una inspiegabile passione, una di quelle che coinvolgono e trascinano, che rimane “dentro” per sempre. Come in tutti i viaggi, i treni rimangono gli stessi ma i passeggeri cambiano: non la rividi più.

Dopo qualche anno decisi, finalmente, di comprare la mia bicicletta. La volevo alta, da uomo, di colore nero. La scelta fu difficile, molte mi piacevano ma nessuna mi comunicava qualcosa di più. Camminando sul listone ammiravo la signorile bicicletta di un uomo alto, sempre ben vestito, che palesemente curava il suo mezzo in modo maniacale. Era una bicicletta di una marca locale, nera, sella Brooks, filetti in oro, marchiata con un fregio molto colorato. Mi piaceva, sentivo che io volevo essere suo e lei mia. Un amore a
prima vista.

In una sera afosa di luglio incrociai Attilio, questo era il nome dell’uomo signorile, assieme a una donna alta e distinta che aveva qualcosa di familiare. Era lei la signora del treno, quasi non ci credevo! La stessa signora che aveva allietato il viaggio che, da diciottenne, compii nella speranza di un futuro. Avvicinandomi lei mi riconobbe, discutemmo del più e del meno e alla fine parlammo di biciclette. Le raccontai il mio desiderio di acquistarne una e la difficoltà che provavo. Ricordo bene la scena, eravamo sul listone. L’uomo togliendosi la pipa dalla bocca mi disse: «questa sarebbe una bella bicicletta per te». Non sapevo nulla di lui, non l’avevo mai conosciuto di persona, non sapevo chi fosse né da dove provenisse, il suo accento non era propriamente ferrarese. Sapevo solo il suo nome perché era inciso sulla bicicletta.

Provai una grandissima emozione nel poter toccare quel meraviglioso mezzo! La signora guardando i miei occhi colmi di gioia chiese al marito: «tu non dovevi comprare quella elettrica? Perché non la vendi al ragazzo?».

Attilio mi raccontò la storia della bici e del suo primo proprietario, Mauro, un signore d’origine pugliese che acquistò la bicicletta nel 1947, quando aprì la sua prima attività. Quando venne il momento di congedarsi faticai non poco a distaccarmi! Per altri sei lunghi mesi vidi quella bicicletta, in piazza, raccontarmi la sua insofferenza in mano ad Attilio che, preso forse dalla malinconia, la stava lasciando all’incuria. Arrivò il giorno in cui lo incontrai su una bicicletta elettrica, il listone aveva perso il suo gioiello!

Chiesi spiegazioni ad Attilio, la bici era stata rubata, aveva dimenticato di chiuderla con il lucchetto. Preso dallo sconforto, una lacrima non esitò a scendere. La cercai in lungo ed in largo, ma nulla. Nel frattempo comprai la mia bicicletta. Un ferro nuovo che non sentii mai come qualcosa di mio e che dopo qualche tempo mi lasciò a piedi. All’incrocio fra piazza Trento e Trieste e via Mazzini, una buca riuscì a squarciare una ruota e mi recai dal “biciclaro” per sostituire la camera d’aria. In quel posto avvertii una presenza. Un catorcio arrugginito, pieno di polvere, giaceva fra la catasta dei telai smontati presenti nel magazzino. Mi avvicinai, la toccai e tolsi la polvere dall’asse. C’era scritto “Attilio”! Ero felicissimo! Era il 14 gennaio, giornata memorabile. Il commerciante mi sconsigliava l’acquisto ma io comprai subito, senza esitare. La impacchettammo e poi trascinai a casa il pesante fardello, passando per la piazza. Il cielo era grigio, sembrava triste per il fascino perduto di quel meraviglioso mezzo.

Dieci giorni dopo incontrai Attilio e gli raccontai di aver ritrovato la bicicletta. Lui, da gentil signore, mi disse: «l’hai voluta con caparbietà, l’hai cercata e trovata. Tienila tu, è tua. Io ho già questa bici elettrica!». Finalmente si era realizzato il mio sogno!

La bici è diventata mia e ora la sto restaurando con tanta cura. Per ogni componente scelgo sempre la soluzione meno invasiva, so bene che la storia è irreversibile, vorrei solo rallentare i processi di ossidazione del metallo. Vorrei che mantenesse il fascino che gli anni le hanno conferito. Diana, questo è il nome che le ho assegnato, tornerà presto a solcare le lastre del listone.

Daniele Sasso

Foto di Valerio Di Mauro

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