Dove è finito l’inferno? Questo se lo è chiesto di sicuro chi tra il pubblico è un esperto di Butoh. Sì, perché lo spettacolo “Utsushi. Tra due specchi” poco ha a che vedere con l’originaria danza giapponese delle tenebre, quella della carnalità e delle facce grottesche, quella che riprendeva Artaud e De Sade. D’altronde, c’è da dire che già lo stesso Ushio Amagatsu, coreografo e danzatore del Sankai Juku, ci aveva avvisato con una frase in perfetto stile nipponico|criptico del tipo: “si può definire la danza Butoh soprattutto per ciò che non è”.

La critica fin dall’inizio aveva in realtà cercato di definire questa danza, nata nel dopoguerra, non senza difficoltà. La considerava al contempo innovativa ma ispirata al teatro popolare giapponese, antioccidentale anche se aveva studiato l’Espressionismo tedesco, post-bellica (che per il Giappone significava soprattutto post-Hiroshima) e primitiva, intimista ma carnale. Era una danza provocatoria e distaccata al contempo. Usava il corpo ma era metafisica. Quindi, nella sua stessa essenza, il Butoh si concretizzava senza un modo di espressione che fosse fisso, e non era dunque codificabile. La danza Butoh non è mai stata un sistema, non si è mai voluta dare uno stile.

Che cos’è dunque il Butoh?

L’ideogramma giapponese della parola “butoh” rimanda a due termini: da un lato la “danza”, quindi ballare, muoversi elegantemente, riferito soprattutto alla parte superiore del corpo; dall’altro “il piede, il pestare con i piedi”, muoverli lentamente, sentirli urtare con il palco e strisciare sottili, bloccati solo dall’attrito. Il Butoh diventa quindi l’intimo dialogo tra il movimento delle mani e la fermezza nei piedi, una relazione intensa tra anima e corpo. Due elementi contrapposti ma essenziali che si ritrovano anche nello spettacolo di Ushio Amagatsu di ieri sera al teatro Comunale Claudio Abbado, che con Utsushi mette insieme in 75 minuti un ricco collage di suoi precedenti lavori. Una sorta di continuità tra passato e presente, tra gli spettacoli degli anni ’70 e ’80 ai più vicini nel tempo. “Non è solo un riflesso – il termine Utsushi significa appunto questo – è anche trasporto tra due specchi, che significa quindi far rispecchiare il passato nel presente”, sottolinea Amagatsu.

Courtesy Marco Caselli Nirmal

Il bianco è il colore che predomina la scena. Bianchi i volti dei danzatori, bianchi (quasi tutti) gli abiti di scena, bianca la polvere che si alza tra i movimenti. Eppure il limite tra paradiso e inferi è appeso proprio vicino a questi esseri bianchi, in tre bilance, ciascuna tarata ad un peso e a un equilibrio differente. Non ci sono spiegazioni razionali, non ci sono definizioni. Ci sono solo tre sottili fili che delimitano gli spazi (o gli esseri). E poi c’è l’uso sapiente della luce, che crea contrasti, sezioni, parti di scena e parti di (denso) vuoto. E la musica, da quella quasi impercettibile che fa suonare il vento, a quella caotica creata da una sorta di Tom Waits nipponico. Note che riempiono il Comunale per poi arrestarsi d’improvviso nel silenzio.

I danzatori del Sankai Juku sono tra questi due (o forse molteplici) mondi proprio perché non sono. “I danzatori di Butoh – spiega Amagatsu – non devono avere nulla nella testa quando ballano. Non devono avere pensieri. È il corpo vuoto, o il corpo morto come veniva chiamato alle origini, sempre pronto alla metamorfosi assoluta”.

Nel suo spettacolo Ushio Amagatsu non vuole giocare con tabù sessuali o con ciò che è kitsch e deforme, come fecero i suoi predecessori (gli storici Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno, figure di riferimento per danzatori di Butoh e non solo). In Utsushi prevale il senso estetico ed etico della bellezza dei corpi, dei rituali della vita, della nascita e della caduta, il tutto racchiuso in delicati movimenti di mani, di occhi, di visi che osservano qualcosa più alto di loro. Qualcosa che ci vogliono mostrare, perché vogliono farci scoprire un senso di appartenenza comune, un tutt’uno nelle cose che non devono per forza essere definite a parole. Prima devono essere sentite, viste, assaggiate, vissute.

Kazuo Ohno diceva che “La cosa importante non è trasformarsi in qualcuno o qualcosa, ma la metamorfosi in sé, il fatto che ci si trasformi”. In fondo, col suo spettacolo, a chi chiede dove siano finite le tenebre del Butoh, Amagatsu sembra rispondere sotto un velato sorriso: “per ora lasciateci trasformare in elementi paradisiaci, in tenerezza e in sentimenti d’amore. Tanto l’inferno è sempre lì, sul confine, che ci aspetta”.

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