No, nessuno sa. A distanza di anni, ancora mi chiedo perché trascorressimo le nostre estati pre puberali a giocare a tennis su un rettangolo di asfalto dismesso all’interno del cortile di un istituto tecnico cittadino. Forse per il brivido di oltrepassare i confini amministrativi, peraltro senza nemmeno bisogno di scavalcare la recinzione metallica: un varco abbastanza ampio per far passare i nostri esili corpi da ragazzi delle medie ci abituava alle sovversioni a portata di mano. Così lo schema si iterava ogni pomeriggio, da fine giugno a inizio settembre, pressoché inalterato. Caricare la borraccia Gio’Style di tè solubile (Lipton per me, Ristora per il mio avversario), infilare la racchetta Head acquistata in sconto alla nuova Ipercoop di via Bologna nello zaino, prendere la bici e percorrere la distanza tra casa e il tempio del tennis artigianale, infantile, dilettantistico: il campo dell’Itis. Un tragitto breve, eppure sufficiente per trasfigurarla e trasportarmi mentalmente nei corridoi dei templi famosi del tennis, come se fossimo al Rolland Garros: Quacchio si trasformava nei dintorni di Wimbledon, e l’erba appena tagliata dei cortili di via Pacinotti brillava come il verde del Centre Court. C’era tutto il tempo per concentrarsi, e ripetersi i propositi di quel pomeriggio estivo così simile ai precedenti e probabilmente ai successivi: almeno oggi, cerca di vincere almeno uno scambio. Perché anche se erano estati pre puberali, e più che giocare a tennis mettevamo in scena una proiezione fisica di “come sarebbe stato giocare a tennis”, avevamo già imparato a stringerci la mano a fine partita e soprattutto a perdere. Perlomeno, l’avevo imparato io, visto che il mio avversario era andato a scuola di tennis, sapeva tecnicamente come prenderla di rovescio o come si effettua il servizio, e mi riversava questo decisivo vantaggio cognitivo aldilà della rete, sulla mia racchetta che regolarmente non riusciva a tenergli testa. Si giocava a tennis, in quei pomeriggi estivi degli anni delle medie, e si perdeva, e tutto questo mi affollava sempre la mente nel breve tragitto tra casa e il campo, in bici. Eppure non potevo farne a meno, era la liturgia estiva da compiere regolarmente, pedissequamente, con la dovuta riverenza. Quindi ci si incontrava in via Pacinotti, legavamo le bici alle inferriate, invadevamo l’area in teoria inibita, e alle quattro postmeridiane, indisturbati, facevamo il nostro ingresso nell’arena del tennis di Quacchio: il campo dell’Itis, dall’asfalto granuloso, irregolare, ovviamente inadeguato alla disciplina. Lungo il perimetro non c’erano recinzioni, la pallina sfuggiva nei prati, dall’erba alta e folta che inghiottiva puntualmente le nostre speranze di scambi regolari. Capitava frugassimo afflitti per ore: era necessario dotarsi di pazienza e di numerosi tubi di palline (dai colori più improbabili: giallo fluorescente, giallo ocra, panna spelacchiata marchiata Dunlop). Soprattutto, a dividere le due metà campo, le cui strisce peraltro erano quasi completamente consumate, non c’era la rete, ma soltanto un nastro da lavori in corso teso più e più volte da un palo all’altro a formare una parvenza di divisione. La luce filtrava tra le generose fessure rimaste da questo intreccio, sufficiente però a garantire un briciolo di regolarità alla partita. A rendere evidente il confine tra me e il mio avversario, perlomeno, a trasformarlo in qualcosa di tangibile e non relegato nella mia mente dalla mia incapacità o da quella sensazione così mistica, come un uomo di fronte a uno specchio, che solo il tennis e nessun altro sport sa offrire.

La verità sul tennis la afferravamo così, scambiandoci colpi nel cortile di un istituto tecnico d’estate, al meglio dei cinque set, affinando pomeriggio dopo pomeriggio, anno dopo anno, il diritto, addirittura il rovescio, e azzardando anche una parodia di battuta di servizio. Il tennis, a dodici anni circa, per noi era questo: uno specchio, l’eleganza di un gesto nella sciatteria di una domenica pomeriggio di un quartiere residenziale, le foglie dei pioppi enormi alle nostre spalle che sembravano applaudire come sul Campo Centrale. Le nostre estati iniziarono a finire quando il rituale delle nostre partite fu interrotto da un’invasione di campo imprevista. Forse giocare a tennis, a Quacchio, era considerato troppo naif, e intercettò l’insofferenza di ragazzi più grandi di noi, dotati di motorino, che iniziarono a prendere di mira prima il campo, e poi le nostre stesse partite, girandoci attorno. Fino a quando, un pomeriggio, il più meschino di quella ridicola gang decise di entrare in campo direttamente a bordo del suo Ciao truccato, proprio durante una partita. E non si fermò, e decise di puntare direttamente alla rete, a quell’intreccio di nastro per lavori in corso che ci dava l’illusione di un confine, indispensabile per giocare, e iniziò a sventrarlo con la potenza di un Ciao truccato, accelerando per vincere la resistenza del nastro, del tennis che veniva stuprato sotto il sole. E lui rideva, e a me veniva quasi da piangere, e il mio avversario continuava imperturbabile a giocare, e io non capivo: avrei voluto picchiare il vandalo con la racchetta, oppure gettarla tra i pioppi per sempre e andarmene via e dimenticarmi del tennis, dell’estate, dei cortili delle scuole superiori chiusi ai cittadini. Invece rimasi, continuai a giocare anche quando il motorino strappò via la barriera tra me e il mio avversario, e non si capiva più se la pallina era sopra la rete o sotto: non c’era più il nastro, non c’era più la rete, non c’erano più confini e io non capivo più chi ero, se fosse punto oppure no, se fosse doppio fallo oppure avessi perso il set, se fosse estate oppure inverno. Di certo, giocare non fu più la stessa cosa.

Simone Campana prima di essere un illustratore è innanzitutto un giocatore di tennis. Anzi, prima ancora è un esteta, se posso permettermi, perché il tennis, da quel poco che ho capito, credo vada concepito come un esercizio di stile: puro estetismo, dunque. È un’intuizione, è un gioco di specchi dove vince, pirandellianamente, chi si accorge per primo dei difetti dell’avversario, che altro non è se non il riflesso dei propri movimenti. Come Vitangelo Moscarda rimane esterrefatto di fronte allo specchio, quando la moglie gli fa notare una mattina di avere il naso storto quando a lui era sempre apparso dritto, ecco, per segnare il punto a tennis bisogna accorgersi che là c’è uno spazio dove spedire la pallina, quando a tutti, avversario compreso, non sembra proprio possibile ci siano i centimetri sufficienti. Che quel naso non sia storto, e invece lo è. E invece ci sono, i centimetri, sono ovunque, nel tennis e nella vita, e vince chi riesce a vederli, quando nessun altro ancora ci è arrivato. Il tennis, e illustrare, diventano allora la stessa cosa. Così ho pensato di giocarci a tennis, con Simone, invece che intervistarlo, perché appunto, non si capisce bene quando smette di disegnare e inizia a giocare, quando sta usando la racchetta o impugnando la matita. Decidiamo di darci appuntamento a una domenica pomeriggio di inizio novembre, in pantaloni corti anche se fuori piove, anche se è autunno. Mi concede in prestito la sua racchetta, una favolosa Wilson dal telaio bianco smagliante e impressionante leggerezza. La impugno perplesso, rispetto a vent’anni fa ora le racchette sono ancora più impalpabili e dall’ampiezza maggiore. Quasi a rendere ancora più difficile sbagliare, quando invece il problema è sempre quello: dosarsi, vedere quei centimetri, e quando li vedi, non abusare di questa speranza, ma intrometterti in quello spazio, mandandoci prima la pallina, e poi te stesso, e farlo in modo armonico, con il giusto movimento del braccio, con la giusta rotazione del polso, a chiudere il colpo ma non troppo, a spingere ma non troppo. Adesso ho addosso molte estati in più, la maggior parte delle quali non propriamente passate a giocare a tennis, per riuscire a non sfigurare di fronte a Simone e soprattutto a fargli delle domande. Il campo sembra divaricarsi quando lui attacca e mi spedisce la palla esattamente nel punto opposto a dove mi trovo. E poi diventa clamorosamente angusto quando devo rispondere, e non riesco a chiudere il mio dritto e la pallina diventa un ridicolo proiettile, finendo abbondantemente oltre la linea di fondo.

Foto di Lucia Ligniti

Fermiamoci un attimo. Simone Campana vive a Ferrara e lavora a Bologna per Consumatori, la rivista dei soci Coop. Collabora con il magazine che state leggendo e la rivista Caboto. Se gli chiedete cosa fa nella vita, lui vi risponde dando priorità al tennis. Simone però è un illustratore nato quasi per caso che nel corso dei mesi ha saputo sviluppare uno stile tutto suo. Tennis e disegno in lui si intrecciano, tanto che nei gesti tecnici di Simone sul campo riesco a intravedere i tratti del suo illustrare. Parlare a questo punto non serve, serve giocare, e ricordarsi di tutte le illustrazioni apparse su Listone Mag in questo anno e mezzo. Quella in cui giocano a pallavolo, e sembrano in cielo e felici, ma attorno a loro c’è la condanna del precipizio. Quella del Listone estivo che si trasforma nel mare, quella delle enormi mani sopra allo stadio della Spal. Sono illustrazioni che ricordano un po’ (osiamo) i Federer’s Moments, come li descriveva David Foster Wallace (potevo non citare Foster Wallace in un pezzo sul tennis?) raccontando uno scambio tra il maestro svizzero e Agassi nella finale degli Us Open 2005: «E poi segue quel consueto, breve secondo di silenzio attonito prima che la folla newyorchese esploda, e in tv John McEnroe, con il suo auricolare da commentatore in testa, che dice (più che altro a se stesso, sembra): “Come ha fatto a far punto da quella posizione?». E ha ragione: considerando la posizione di Agassi e la sua straordinaria velocità, Federer doveva indirizzare la palla dentro un corridoio largo cinque centimetri se voleva superarlo, ed è quello che ha fatto, muovendosi all’indietro, senza tempo per preparare il colpo, e senza poter sfruttare il peso del corpo per imprimergli potenza. Era impossibile». Ecco, le illustrazioni di Simone sono impossibili, ma non perché sono belle (lo sono), o lui sia bravissimo (lo è), ma perché riesce, agganciandosi al testo da cui traggono spunto, a spingere i confini dell’articolo un centimetro più in là, dove non ci avevi pensato, spostano il limite del campo e delle leggi della fisica un po’ più in là, in quel quadratino illuminato della fantasia come se fosse un pezzettino di cielo sgombro dopo un temporale. La cosa buffa di tutto questo è che Simone Campana non voleva fare il disegnatore da piccolo, e si è scoperto illustratore per caso, perché gli è stato semplicemente chiesto di farlo. Non possedeva ancora un “suo” stile, quello che i lettori di Listone Mag hanno poi imparato a conoscere mano a mano: la scelta di colori, l’atmosfera dell’illustrazione, lo schema logico che prevede l’aderenza alla vicenda descritta più quel momento di smarcamento che fa entrare il vento nella finestra della mente di chi osserva i suoi lavori.

Serve uno spritz a fine partita, per farmi raccontare un po’ di lui. «Ok, ho fatto il Dosso Dossi, ma ho sempre avuto da piccolo solo un desiderio: fare il giocatore di tennis. Ho iniziato da quando andavo alle elementari, mio padre mi faceva fare qualche scambio dopo che aveva finito di giocare con i grandi. Poi da lì ho giocato sempre di più, fino a quando non l’ho battuto, e allora mio padre non ha più voluto giocare con me». Sorrido. «E sono andati avanti a fare partite per anni, quando poi è subentrata una passione altrettanto forte: la sceneggiatura. Mi sono iscritto a un corso di scrittura teatrale alle Moline di Bologna, ho iniziato a scrivere le prime piccole storie, poi una commedia che ho portato in scena al cinema di San Benedetto, si chiamava “Ho visto gli struzzi volare”. Con il mio caro amico Fabrizio a un certo punto si pensava di andare a fare le scuole di sceneggiatura di Mediaset, lui non voleva perché gli sembrava fosse troppo svilente, commerciale, però lo convinsi. Ci divertivamo a inventarci storie, ed eravamo pure rigorosi, rispettavamo la grammatica della sceneggiatura, dosavamo i colpi di scena, era tutto conteggiato. Lui pensava ai dialoghi, io alle trame: non pensavamo di sfondare, tanto, ci ripetevamo, saremmo finiti a fare i surfisti… Ma ci piaceva scrivere». Simone racconta, ma il disegno compare soltanto alla fine, a spritz praticamente finito. «Qualche anno dopo ho fatto alcuni corsi di illustrazione per l’infanzia a Sarmede, spinto da un’amica. La scuola era molto bella, nel bosco, mi ha acceso la voglia di disegnare. Nel mentre facevo orridi disegnino per le notizie del sito del giornale per cui lavoro, Consumatori. In quella scuola ho visto come lavorano alcuni grandi illustratori come Junakovic, ma mi sono anche reso conto che il campo delle illustrazioni per l’infanzia non faceva per me. Ho preferito studiare gli illustratori per magazine e quotidiani come Ponzi, Scarabattolo e Shout. Il “click” definitivo per il disegno però è scattato con Listone: Eugenio (il direttore) mi chiese di collaborare poco prima dell’apertura, io pensavo volesse degli articoli da me, visto che ci eravamo conosciuti tramite i rispettivi blog dell’epoca, invece lui puntava solo alle illustrazioni… Lì capii che dovevo fare le cose per bene».

Come nascono i tuoi disegni, gli chiedo, mentre in tv Higuain segna l’uno a zero per il Napoli contro la Fiorentina? «Parto sempre e solo dal testo dell’articolo, anche se a volte non ho la possibilità di leggerlo in anteprima ma ne conosco soltanto il tema. Penso quindi a un’idea, da lì disegno a matita, e solo alla fine distribuisco i colori». Me lo spiega come se fosse una cosa naturale, spontanea, quasi ovvia, ma senza apparire saccente: Simone odia spiegare l’inspiegabile, anche per questo mi è toccato giocare a tennis invece che far partire il registratore, e credo sia avverso pure all’esplicitare gesti che gli appartengono, e basta. Come quando, sul campo, gli chiedevo come si facesse a chiudere la battuta del servizio, visto che le mie palline planavano regolarmente oltre la linea di fondo come fossero elefanti ubriachi in volo, e lui con tutta l’eloquenza possibile mi spiegava placido di alzare molto di più la pallina in aria, colpirla quando è ancora in alto, distendere il braccio, e poi chiudere il gesto con il movimento del polso, per non far schizzare via la palla. Capito, no? Per l’inaugurazione della sua mostra da Zuni (da oggi fino al 31 dicembre, va ad aggiungersi all’altra in corso all’Hotel Annunziata) avrebbe voluto proiettare sulle pareti la sfida tra Borg e John McEnroe nella finale di Wimbledon 1980: «Perché rappresenta tutti i modi possibili di giocare a tennis, perché quella partita é, il tennis: vedi McEnroe sgraziato, chiaramente inadatto alla disciplina tennistica, ma capace di compiere movimenti impossibili da insegnare, perché sbagliati concettualmente eppure così efficaci. E poi invece Borg, un geometra del tennis, che ha rivoluzionato questo sport dimostrando che si poteva vincere anche giocando da fondo campo, quando invece fino a quel momento si era pensato il tennis come gli scacchi, dove contava guadagnare spazio introducendosi nella zona dell’avversario. Eppure lo stesso Borg, così preciso in campo, fuori era pazzo anche più di McEnroe stesso forse. C’è tutto, in quella partita».

C’è una canzone (e un album) di una decina d’anni fa dei Virginiana Miller che parla di tennis per parlare ovviamente d’altro, si chiama “La verità sul tennis e una volta in un’intervista il gruppo livornese spiegò che il titolo era dovuto all’efficacia del gioco del tennis come interpretazione delle nostre vite: «È una bella metafora di quello che eravamo: piccoli borghesi che, in qualche modo, volevano partecipare della bellezza, dello stile. Oggi (l’album uscì nel 2003, nda) questo problema pare sorpassato. Basta avere i soldi, il gusto non serve. Gli status symbol non sono più legati a qualcosa che si sa fare (giocare a tennis, appunto), ma a qualcosa che si deve avere». Io a tredici anni non volevo possedere il motorino, alla pari di quel vandalizzatore di campi da gioco, e nemmeno saper fare a giocarci, a tennis. Mi bastava, e mi sarebbe bastato per molti anni ancora, sentire gli applausi delle foglie dei pioppi mossi dal vento e bere tè solubile al tramonto di un pomeriggio di luglio. Mi bastava, e dio solo sa quanto mi servirebbe ora, la costanza di un gesto che si ripete, inderogabile come solo le cerimonie estive sanno esserlo, giorno dopo giorno, andando a occupare gli spazi dismessi dalle amministrazioni provinciali e dalle nostre velleità. Nessuno sa dire perché io e il mio avversario avessimo scelto di specchiarci ogni pomeriggio su un campo da tennis, e non a calcio, a basket o a tiro a segno o con chissà quale altro sport. Scegliemmo il tennis, e basta: giocavamo, ci stringevamo la mano di fronte alle pareti della palestra (oggi segnate dai volti dei padri della patria Mazzini-Cavour-Garibaldi disegnati da writers sotto l’egida delle amministrazioni provinciali), mandavamo giù un sorso di tè solubile e tornavamo a casa sfiniti. Poi il mio avversario se ne andava in vacanza, io rimanevo, sconfitto, in città, l’estate finiva e tutto sarebbe ripreso l’anno successivo, immutabile. Nel mentre l’inverno, a ripensare alla bellezza dei gesti che sono rovesci o volée sulla terra rossa, ma fatti di luce, prima di tutto, come le tavole di Simone. “Nessuno sa la verità sul tennis“.

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.