Quando cinque anni fa dicevo “voglio fare il birraio”, mi davano del pazzo.

“Vuoi fare il birraio da grande? Ma sei matto?”. Tutti mi dicevano così. Ora va di moda e fa figo.
Negli studi non ho mai fatto una scelta che fosse giusta. Ho scelto l’Itis perché avevo la strana idea che mi potesse dare qualche capacità spendibile, vana illusione. Poi, quando l’ho finito, era appena passata la riforma e sembrava che senza una laurea non si potesse vivere. Informatica mi faceva schifo, così scelsi Economia, con la convinzione che fosse facile e che una volta finita si potesse avere un lavoro sicuro, andare a lavorare in banca, nelle aziende, cose così. Finì che presi la laurea giusto per l’inizio della crisi.

A parte l’Itis ed Economia, Vito Carrescia, come hai cominciato con le birre artigianali?
Come ho cominciato. Mah, ho cominciato un po’ per caso. Prima ero abituato a bere le solite birrette, come tutti. La Beck’s, la Ceres, quelle lì insomma. Poi una volta, per caso, tra gli scaffali del supermercato trovo una bottiglia di birra diversa dalle solite. Allora avrò avuto venti, ventuno anni. Incuriosito, l’ho comprata e l’ho bevuta. E così ho avuto la mia fulminazione sulla via di Damasco! Quella birra aveva un suo carattere, non aveva quel sapore standard comune alle altre birre. L’etichetta diceva “birra artigianale”. Così mi sono messo a cercare su internet: c’erano un centinaio di birrifici artigianali sparsi tra il Piemonte, la Lombardia e la Toscana. In Emilia Romagna invece non ce n’erano molti, solo due o tre. Continuando a informarmi ho poi scoperto che era possibile prodursi la birra in casa e che, soprattutto, non era una cosa particolarmente difficile. La spesa iniziale per prendere tutto l’occorrente è stata di 400 euro.
Dai 20 ai 26 anni mi sono limitato a fare la birra in casa; tra l’altro mi costava 1 euro al litro, perciò oltre che un divertimento era anche un modo per risparmiare.

Poi, appena laureato, mi sono chiesto: “che lavoro voglio fare da grande?”, e sai una cosa? Io da grande volevo fare il birraio. Così mi son detto “aspetta che mi informo un po’ per vedere nei birrifici come è il procedimento della birra”. Così ho mandato una sfilza di email, proponendomi come garzone di bottega a titolo gratuito, come si faceva una volta. Su cento spedite verso cento birrifici italiani ho ricevuto tre risposte, ed erano tre no. Gli altri birrifici non si sono nemmeno presi la briga di rispondere. In Italia va così. Preso dallo sconforto, ma anche da una certa incazzatura, ho indirizzato allora le mie attenzioni verso l’Europa, soprattutto il Belgio, la Norvegia. Di certe aziende avevo già bevuto la loro birra. Insomma, per farla breve, nel giro di sei ore una di loro mi ha risposto: era la norvegese Nøgne. Sull’email c’era scritto “vieni pure quando vuoi. Per vitto e alloggio non ti preoccupare, ti ospito io”. E tutto questo nel giro di sei ore, capisci? La Nøgne mi dava la possibilità di vedere per due settimane come si fa una birra artigianale in un birrificio. O meglio, in un birrificio che è tra i più famosi a livello internazionale.

Come è stata questa tua prima esperienza in un birrificio, tra l’altro europeo?
Ho passato le prime due settimane a vedere i vari passaggi di produzione da vicino. La prima è stata di affiancamento, ovvero gli altri birrai mi spiegavano i vari macchinari, le procedure e i tempi. Dopo di che, nella seconda settimana, mi hanno messo la ricetta in mano e mi hanno detto “Ora hai capito come funziona, no? Bene, ora la birra te la fai da solo”. A parte il trauma iniziale, questa esperienza mi è servita molto. È così che bisogna fare per imparare davvero. Così è finita che ci sono rimasto altri tre mesi. Andavo in birrificio la mattina e gestivo gli impianti in autonomia. Alla fine, mi hanno scritto una lettera di referenza – inaspettata e molto bella, tra l’altro – e con quella mi sono lanciato nel mondo del lavoro.
Alla fine mi sono ritrovato alla BrewFist di Codogno, in provincia di Lodi. Tra l’altro le loro erano birre che mi piacevano, quindi presi l’occasione al volo. Dopo un anno, però, ero arrivato a un punto in cui avevo bisogno di nuovi stimoli, di una nuova sfida con me stesso. Allora, mi sono detto “perché non rivolgere la mia attenzione all’estero?”. Lavorare all’estero è sempre stata la mia grande curiosità. Volevo vedere un altro tipo di mercato, un’altra situazione lavorativa. Quindi ho puntato subito all’Inghilterra.

Perché proprio l’Inghilterra?
Perché gli inglesi hanno già una tradizione birraia assodata. La mia fortuna è stata che ho fatto esperienza in birrifici conosciuti a livello internazionale. Anche quella italiana in provincia di Lodi nel tempo si è fatta molto conoscere, fino a diventare tra le 100 migliori a livello mondiale. Erano entrambe, sia quella norvegese che quella italiana, delle ottime carte di presentazione. Il birrificio norvegese è un posto che mi è rimasto nel cuore, non mi aspettavo una accoglienza così paritaria fin da subito, mi trattavano come un dipendente. Mi han dato una grandissima possibilità, che poi è quella che cercavo. Lo devo anche a loro se ho potuto aspirare a Londra. Poi le cose uno se le deve meritare, eh! Chi si aspetta la pappa servita, secondo me, riceve solo delusioni.

Oltre al lavoro, cosa ti è rimasto del vivere in uno stato come la Norvegia?
La Norvegia ritengo abbia un senso dell’ospitalità molto forte. Nei tre mesi che poi ho passato là, ho vissuto a casa di una coppia di amici del titolare del birrificio, che affittavano una dependance. La signora mi preparava i dolci, il marito si fermava sempre a fare delle chiacchiere. Ogni tanto gli portavo delle birre prodotte durante il giorno. In Norvegia l’alcol, come tutti gli altri vizi, è molto tassato per limitarne il consumo. D’altra parte, però, ci sono meno tasse da pagare, le donne hanno diritto a una maternità di 18 mesi con uno stipendio anticipato, la burocrazia è più veloce. Poi, se non paghi le tasse non è come in Italia. Pensa che là mandano una lettera che ti dice “Salve gentile signore, forse ti sei dimenticato di noi. Appena puoi controlla, grazie e scusa”. La Norvegia ha petrolio, gas e legname in abbondanza e non ha aderito all’Opec. La Norvegia reinveste nel proprio territorio e ti dirò che là non ho mai notato la differenza tra ricco e povero; tutti hanno un lavoro, e se uno non ce l’ha, allora ha diritto all’assegno per pagare l’affitto. Un’altra cosa che mi ha colpito della Norvegia è che se il tuo cv contiene le esperienze più disparate, questo è un valore aggiunto e non un demerito.

Mi fai un esempio?
Ti faccio un esempio. Siamo in Norvegia: un direttore di banca decide di colpo che nella vita vuole lavorare in un supermercato. Il responsabile del supermercato dirà “ Bene! Questa persona prima era un direttore di banca, quindi è capace sia di amministrare beni che persone, possiamo metterlo a dirigere il reparto alimentari”. Non gli importa da dove vieni, anzi, quello che hai fatto prima diventa un valore aggiunto nel futuro impiego. Era poi quello che mi chiedevo spesso in Italia, ovvero come si fa a crearsi esperienze se nessuno te le fa fare?

Vito, come funziona un birrificio?
Il procedimento produttivo per fare una birra è abbastanza semplice, diciamo che non cambia molto dal procedimento che facevo in casa, a parte le misure. L’impianto di produzione di un birrificio gigante prevede dei pentoloni giganti. Comunque, si parte col malto d’orzo, che deve stare tra i 62 e i 78 gradi, in acqua tiepida. Più bassa è la temperatura dell’acqua, più la birra ha meno corpo ma è più alcolica. Successivamente, si ha la filtrazione: si separa cioè il liquido dalla sua parte solida. In bollitura viene aggiunta una o più varietà di luppolo. Più il luppolo è inserito alla fine, più rilascia le sue sostanze aromatiche, mentre se è messo all’inizio è più amaro. Detto ciò, si procede al raffreddamento. Una volta raffreddato, la birra viene inoculata in lievito, anche qui i lieviti usati possono essere molto diversi. Inizia la fermentazione, che dura una settimana. Qui si può aggiungere del luppolo a secco, così si va ad aumentare l’aroma della birra. Hai presente quando nella birra si sente quel sentore di agrumi? O resinoso? Ecco, dipende dal luppolo usato in questo passaggio. Infine, si procede al confezionamento e all’imbottigliamento. Si può fare una rifermentazione in bottiglia, con poco zucchero e lievito fresco per non aggiungere alcol. In questo modo si gasa un po’ di più la birra, dandole più bollicine perché crea CO2. Ricordati che meno passaggi la birra fa meglio è, perché tende ad ossidarsi. E il classico aroma da ossidazione è quando la birra sa da pipì di gatto o da cartone bagnato.

Secondo te, quali sono i pregi e quali i difetti della birra artigianale italiana?
La sfiga nel nostro Paese è che in Italia, tradizionalmente, c’è una maggiore cultura enologica. Bisognerebbe solo iniziare a capire che, come il vino, anche la birra ha infiniti abbinamenti gastronomici. Un pregio dei birrifici in Italia è che non avendo una cultura birraia, c’è una maggiore libertà nella creazione e nella reinterpretazione delle birre. Un difetto è che è vista tanto come una moda. Chi è al bancone, spesso, proprio perché la vede come una moda, non ha la giusta competenza nello spiegarti una birra. Si limita a dirti è chiara, è scura, è amara o non è amara. Vedi, ci sono tre canoni da tenere a mente, che sono usati anche nei concorsi internazionali per definire una birra: il tenore alcolico, il colore e il grado d’amaro. Basterebbe giusto qualche parola in più per incuriosire il cliente.

Da fine luglio sei in Inghilterra, dove sei stato assunto dalla Five Points Brewing Company. Come è vivere a Londra?
Pensa che quando mi hanno chiamato, per dirmi che mi avevano preso, ero a Ferrara che mi stavo bevendo una birra al Secret Garden. Pazzesco.
A Londra mi trovo molto bene. In Inghilterra c’è una tradizione più consolidata, che deriva da centinaia di anni di sbronze. Qui c’è un’altra mentalità lavorativa, simile a quella che ho trovato in Norvegia. Nonostante io sia l’ultimo arrivato, non vengo trattato come l’ultimo degli stronzi, cosa che comunemente avviene in Italia. Qui puntano tanto sulla responsabilizzazione: ti viene spiegato il lavoro, vieni inizialmente seguito da qualcuno, poi te la devi sbrigare da solo. Alla Five Points Brewing Company, dove lavoro ora, sono entrato da subito nei meccanismi, con i colleghi mi trovo bene, ma soprattutto faccio il lavoro che mi piace. Questo birrificio è attivo da un anno e mezzo, ma in poco tempo si è ritagliato la sua fetta di pubblico ed è in espansione.

È come se Londra con le birre artigianali stesse avendo una seconda giovinezza, è in piena fase espansionistica. Nel giro di due anni è passata da 20 a quasi 80 birrifici, ed ora alcuni si stanno ingrandendo. Quasi ogni fine settimana c’è un evento legato alla birra artigianale, che qui si chiama “craft beer”, per distinguerla dalle “real ales”, le birre tradizionali britanniche. Insomma, la situazione è in pieno fermento. D’altra parte, qui ci sono i consumi e la possibilità di fare volumi è molto più facile rispetto all’Italia, con la relativa conseguenza che hai la possibilità di pensare e progettare un futuro aziendale. Anche in Inghilterra nel 2008 è scoppiata la crisi, ma la differenza è che qui è durata un anno.
Forse è un motivo culturale, poiché gli inglesi bevono, hanno sempre bevuto e non credo che abbiano intenzione di smettere. Forse è solo una moda passeggera, visto che anche qua fa figo – anzi, è mainstream – bere craft beer. Forse sono io che non ero pronto a questa realtà e tutto mi sembra nuovo – passare da Ferrara a Londra è un discreto salto – ma mi sembra di essere arrivato nel posto giusto al momento giusto.

Hai qualche consiglio per i ragazzi della tua età che si trovano ad aver finito Economia e che non vogliono finire in banca?
Io esorto chiunque ad avere il coraggio (e un briciolo di fortuna) di provare, di lanciarsi nelle cose che piacciono. Perché poi, in fondo, cosa hai da perdere? Male che vada ricevi un altro no.

Illustrazione di Simone Campana

Illustrazione di Simone Campana

1 Commento

  1. Ciro scrive:

    Ciao, anch’io da circa un pò di anni, ho intenzione di lavorare in un birrificio artigianale, ma non saprei da dove iniziare a vedere, per un’assunzione. Consigli…?

Rispondi a Ciro Cancella il commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.