Tracce luminose nell’oscurità del parco Massari, sono comparse venerdì e sabato notte. Bagliori alieni nell’umidità buia dell’erba, sembravano tratteggiare un sentiero a zig zag tra gli alberi. Avvicinandosi alle chiazze il chiarore acquistava forma e colore, nelle pozze di luce si scoprivano delle valigie. Sì, delle valigie. Alcune di cartone, altre ricoperta di stoffa, altre ancora di pelle o di plastica. Tutte contrassegnate dalla fototessera del legittimo proprietario appiccicata sopra, scotchata, graffettata.

L’installazione si intitola “Frontiere” ed è stata realizzata per il Festival di Internazionale da Clément Briend, artista francese che già lo scorso anno si era adoperato per allestire – durante la manifestazione – una serie di gigantesche e suggestive proiezioni fotografiche. Nel 2013 aveva  proiettato su alcuni edifici simbolo della città gli scatti più significativi pubblicati dal settimanale; quest’anno ha predisposto un percorso sul tema della migrazione grazie alla collaborazione del fotoreporter Francesco Giusti, che ha messo a disposizione la serie di immagini intitolata “In case of loss”, in caso di perdita.  I ritratti sparsi nell’erba del parco sono stati ricavati dalle valigie dei lavoratori stranieri che hanno dovuto abbandonare la Libia a causa dei disordini tuttora in corso, dalle fototessere incollate nella speranza che bastassero ad evitare lo smarrimento de bagaglio nel passaggio da un confine all’altro.

Giusti ha fornito a “Frontiere” la materia prima, il contenuto, Briend si è occupato di gestire al meglio il contenitore che preferisce, ovvero lo spazio urbano.

Per conoscere meglio il particolarissimo lavoro svolto dall’artista francese, Listone Mag ha partecipato all’incontro organizzato da Zuni venerdì sera, in collaborazione con il liceo Dosso Dossi.

Foto di Giulia Paratelli

Briend è sembrato trovarsi decisamente a suo agio in mezzo agli studenti – nel suo curriculum, tra le varie, c’è anche l’insegnamento di fotografia presso l’Université de Valenciennes. Ai ragazzi ha spiegato innanzitutto il suo approccio all’installazione: «ho iniziato come fotografo, fotografavo le proiezioni dei miei scatti, mi serviva per costruire dei set. Da lì ho cominciato ad appassionarmi alla proiezione, alle sue potenzialità. Si tratta di uno strumento spettacolare perché coinvolge lo spazio pubblico, ma di solito si abbina al video. Questo è limitante per lo spettatore, perché è costretto davanti all’opera per un tempo prestabilito e perché la sua fruizione è passiva, simile a quella televisiva; ed è limitante anche per l’artista, perché il video richiede un budget molto alto per essere realizzato».

L’indipendenza per Briend è fondamentale, «l’autonomia del materiale è l’autonomia della visione», per questo ha voluto fabbricare da solo i proiettori che usa, i quali – racconta – non sono costati più di cento euro ciascuno. Ad oggi ne ha costruiti una quindicina, mixando tecnologie vecchie e nuove, montando assieme diversi obiettivi fotografici. Quattordici sono quelli impiegati al parco Massari. «La batteria dura sei ore – specifica. Le diapositive sono di medio formato, la qualità della proiezione è eccellente. Non sono un commerciante, non voglio vendere niente, mi piacerebbe che le persone imparassero a costruire e a usare questa macchina per emanciparsi».

L’espressione personale e collettiva, la valenza politica del fare artistico, sono argomenti che ricorrono spesso nel suo discorso: «quando uno fotografa cattura l’immagine e la porta verso di sé, quando uno proietta fa l’esatto opposto, l’immagine parte dal sé e va verso l’esterno. É un gesto che per forza prende una dimensione politica, politica in senso allargato. Negli anni ho lavorato molto con le associazioni, con i collettivi, per proiettare idee che fossero vicine alle mie. La diffusione mediatica dei lavori non avviene tramite i media tradizionali, avviene grazie alle fotografie e le riprese del pubblico, questo contribuisce ad alimentare la discussione sul tema che mi interessa. Si può raggiungere tantissime persone così».

Tra i suoi lavori passati cita il progetto sviluppato a Berlino per capire la visione che hanno della capitale tedesca le persone che si sono appena trasferite, «nella foto si confonde la persona con la sua visione, visione reale e spazio personale si mescolano, obiettività e soggettività»; l’allestimento realizzato a Parigi per richiamare l’attenzione degli abitanti sui tantissimi edifici abbandonati presenti in città, svuotati dalla speculazione immobiliare. Mentre parla, sulla parete alle sue spalle, scorrono le immagini delle installazioni. Impossibile non restare a bocca aperta di fronte al lavoro che ha realizzato in Cambogia nel 2012, in occasione del festival Phnom Penh, quando ha proiettato i volti del Buddha e di altre figure della tradizione religiosa locale sugli alberi della capitale, trasformando le chiome in divinità incarnate, surreali e inquietanti.

«Mi piace che tra l’immagine e il supporto si instauri un dialogo. Creo dei percorsi ma è lo spettatore che sceglie cosa vedere e quando, e per quanto tempo. Le mie installazioni sono il contrario del videomapping, non hanno un inizio e nemmeno una fine, il pubblico non è passivo. In Cambogia l’effetto è stato fortissimo, anche perché non ci sono molti cinema e la gente non è abituata alla proiezione. Le persone sono state molto colpite da quelle facce, così grandi e imponenti, facce assolutamente note e importanti nella vita culturale e spirituale del Paese”.

Interrogato da uno studente sui finanziamenti che l’arte riceve in Francia, Briend ha concluso l’incontro con questa riflessione: «l’arte in Francia è aiutata per chi si vuole far aiutare. Se ti impegni e mandi dei dossier alle persone giuste vieni aiutato. Così facendo però non hai autonomia, ti leghi parecchio alle istituzioni oppure ad alcune persone. Sei obbligato a definire prima cosa sarà la tua creazione, a metterla nero su bianco, e questa non è per forza la strada giusta».

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