C’è un percorso breve e frammentato, spezzato in piccoli segmenti per ragioni di sicurezza, che scandisce il passo di chi da fuori visita il luogo di chi vive dentro. E poi c’è l’itinerario più lungo che accompagna il complesso cammino di consapevolezza di chi fuori non può uscire. Il significato delle parole ‘fuori’ e ‘dentro’ si riempie di senso quando chi le pronuncia è privato della libertà. In passato, nell’intervista a Michalis Traitsis, fondatore dell’associazione Balamòs Teatro, vi abbiamo parlato dell’importanza dei laboratori teatrali all’interno degli istituti penitenziari. Oggi torniamo sull’argomento, approfittando dell’evento ‘Internazionale incontra il Carcere’, aperto su invito a giornalisti e personalità indicate dal festival. In programma ci sono gli spettacoli ‘Tasso-Materiali’, diretto da Horacio Czertok, e ‘Hard Core’, diretto da Andrea Amaducci, realizzati da detenuti nella Casa circondariale di Ferrara. Poco prima di varcare i cancelli dell’Arginone, troviamo il tempo di rivolgere alcune domande proprio a Horacio Czertok e ad Andrea Amaducci, registi delle produzioni del Teatro Nucleo.

Quali tematiche sfiora lo spettacolo a cui lavorate come registi?
H: «Stiamo lavorando su due spettacoli, uno è ‘Hard Core’ ed è improntato sull’esperienza personale degli attori e veicolato soprattutto attraverso il movimento e i codici gestuali. L’altro al momento ha per titolo ‘Tasso-Materiali’. Si tratta di un cantiere sulla ‘Gerusalemme liberata’, stiamo preparando i materiali che andranno a conformare uno spettacolo la primavera prossima».

A: «Le tematiche, come nella più antica tradizione sono: vita e morte. Il ragionamento, snocciolato dai detenuti-attori, ruota attorno al concetto del proprio doppio. Con me gli attori lavorano sul corpo, sul movimento e sulla musica».

A prevalere è l’elemento collettivo o individuale?
H: «Il laboratorio è al tempo stesso collettivo e individuale, nel senso che l’esperienza dell’individuo avviene nell’ambito del collettivo, che funziona come referente, come contenitore e come confronto».

A: «Nel processo di lavoro è imprescindibile l’aspetto collettivo che cerco di generare sviluppando le attitudini naturali individuali. Quando si lavora specificatamente su una persona, il resto del gruppo partecipa attivamente».

Quanti sono i detenuti-attori che hanno preso parte al lavoro?
H: «Iniziato nel 2005, per il laboratorio teatrale sono transitati circa duecento detenuti».

A: «’Hard Core’, partito con tre attori e quattro musicisti, è ora un duo con tre musicisti. Il laboratorio ha attualmente una dozzina di iscritti e verrà integrato con nuovi elementi in questo mese».

Lavorare in un ambiente carcerario quanto condiziona l’attività dei laboratori?
H: «Il laboratorio teatrale è specifico, e disegnato per tenere in dovuto conto sia la situazione specifica sia la condizione del partecipante. Nell’ambito del laboratorio teatrale il detenuto può fare esperienza delle proprie emozioni e del proprio vissuto nella libertà relativa del contesto e così conoscerle e dunque crescere come individuo».

A: «Il paradosso che si crea è che la situazione di reclusione genera un capitale creativo potenziale enorme. C’è voglia di liberarsi come mai avevo visto prima. Detto questo, gran parte delle possibilità che fuori sono date per scontate, in quel luogo non lo sono. E quindi diventa difficile portare oggetti all’interno, poter filmare il lavoro, fare una cosa senza fermarsi subito (lo spazio non è tanto), potere sforare di tre minuti se si sta lavorando bene… ».

Come si sono posti i detenuti-attori nei confronti di questa esperienza?
H: «Molti con entusiasmo, altri con perplessità e pregiudizi: come in altri contesti».

A: «Mi sento di poter dire che in data odierna, il laboratorio di teatro ha un tenore professionale. Dopo quasi dieci anni. Gli attori più anziani si occupano, semplicemente con la loro serietà, di fare capire ai nuovi che non si scherza, o meglio, si scherza eccome ma con un certo metodo».

A colpirvi maggiormente è la loro capacità interpretativa o il loro desiderio di mettersi in gioco?
H: «Spesso vanno insieme, a volte no: c’è più voglia che capacità, ed proprio su questo che possiamo lavorare, offrendo conoscenza e sviluppo tecnico».

A: «Mi colpiscono molto le attitudini individuali che arrivano dalle loro storie, dalle loro terre di nascita, dai loro mestieri. A volte è un fatto geografico, i napoletani tengono il palco, non c’è niente da fare, e gli slavi o ballano o suonano bene. La cosa che mi stupisce ancora è la capacità che hanno di mettersi a nudo di fronte agli altri compagni detenuti».

Quanto è importante, in un ambiente come il carcere, la continuità dei laboratori teatrali?
H: «La continuità è essenziale, anche perché non si lavora solamente sui detenuti ma sulle relazioni tra i vari soggetti, l’amministrazione, gli educatori gli agenti della polizia penitenziaria, e poi i cittadini».

A: «Fondamentale. La qualità di oggi si è ottenuta per questa ragione, oltre al turn-over continuo dei partecipanti al laboratorio e oltre anche al cambio di comando e direzione del carcere stesso».

Una volta conclusa la reclusione, gli ex detenuti che hanno preso parte ai laboratori continuano a interessarsi al mondo del teatro?
H: «Alcuni hanno partecipato e partecipano a spettacoli teatrali in qualità di attori. Ma non è lo scopo principale del laboratorio, che è invece quello di contribuire all’educazione complessiva della persona nell’ambito della cittadinanza attiva e della capacità di trovare una collocazione nel mondo».

A: «Con un ex detenuto, Aissa Moncef, si è continuato a collaborare fino a produrre uno spettacolo di narrazione, ‘Il mio vicino’, con la regia di Czertok, che è stato presentato in diverse occasioni e anche all’estero, in Spagna, Germania e Belgio, all’interno di progetti europei dedicati alle attività educative nelle carceri. In generale nessuno vive di teatro dopo il laboratorio (per il resto, io ci vivo a malapena e sono libero… ). Detto questo, tutti gli ex detenuti che ho incontrato mi parlano di una sensibilità artistica cambiata rispetto a prima del laboratorio, di una capacità critica maggiore nell’analizzare un evento performativo, anche se si tratta di guardare la tv».

Perché è importante che il mondo esterno rivolga il suo sguardo verso le attività dei laboratori teatrali in carcere?
H: «Per il ruolo che questo ha nell’educazione dei detenuti. Come vogliamo che siano i nostri vicini di casa? Il teatro contribuisce decisamente a farne delle persone consapevoli. E garantisce un collegamento specifico tra il carcere e la città di cui è parte. È importante che il cittadino conosca il ‘suo’ carcere, quello che contribuisce a sostentare, e il teatro è il veicolo ideale, sia quando si fanno spettacoli dentro sia quando occasionalmente la compagnia esce per presentarsi nei teatri cittadini».

A: «Perché credo sia l’elemento che manca, almeno rispetto alla città di Ferrara, per chiudere il cerchio della partecipazione. È il trasformare che interessa, e per trasformare servono tutte le parti. Se ‘l’esterno’ trovasse altri modi guardare ‘l’interno’, sarebbe una buona occasione per esplorare il pregiudizio».

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