Il flusso creativo irrompe spedito di mese in mese. Dissemina parole lungo gli appigli del tessuto urbano. Poi si placa per dare appuntamento, puntuale, alla prossima tappa. L’inchiostro si asciuga sulla firma e gioca anch’esso con un vocabolo dal richiamo impetuoso e suggestivo, marea. E Ma Rea è lo pseudonimo scelto da un ragazzo padovano che da tempo studia e lavora a Ferrara. Le tracce delle sue poesie periodicamente compaiono in insoliti luoghi della città estense. L’effetto sorpresa provocato cattura la curiosità dei passanti. E, al tempo stesso, è il carburante di un ciclo di iniziative finalizzate a far sì che la poesia bussi alla porta dei cittadini. Ne abbiamo parlato proprio con lui.

Cominciamo dalla fine. Cosa riserva la tua ultima campagna?

«La mia ultima campagna si chiama elegantismi. Nel momento in cui rispondo è appena iniziata. Il mio intento, in questo caso, è quello di usare la poesia come grimaldello nei confronti dei pregiudizi e degli stereotipi derivanti dai look utilizzati dalle persone. Attraverso l’utilizzo di piccoli dettagli legati all’eleganza e all’abbigliamento in generale attiviamo un lavoro di costruzione culturale sul nostro corpo creando così delle immagini legate al genere uomo-donna, e non solo. Proprio ricostruendo sagome cartacee di questi simboli voglio riproporre questo utilizzo e tutte le combinazioni che mi vengono in mente. Così facendo voglio far emergere come sia arbitrario e basato sulla consuetudine l’uso e l’abbinamento di collane, orecchini, occhiali di diverso tipo, cravatte più o meno lunghe, papillon più o meno grandi, ecc. nella costruzione del genere donna o uomo. Sulle sagome plastificate sono impresse delle poesie che trattano temi inerenti i pregiudizi, i luoghi comuni e tutto quello che può derivare da certe letture socio-culturali superficiali».

Come è nata l’idea per realizzarla?

«L’idea è nata così, all’improvviso, osservando un palo dei segnali stradali in Piazza Sacrati a Ferrara. Non so per quale strano motivo, ma me lo sono immaginato incravattato. Questo successe alcuni mesi fa. Da quel momento ho cercato di capire da dove mi è venuta quell’idea e ho dedotto che sia una sorta di sublimazione dell’uso di quel simbolo dell’eleganza nella nostra società e dell’uso che ne fa mio padre. E del rapporto sempre un po’ complicato che ho avuto con la cravatta. Solo durante il servizio militare l’ho usata e in nessuna altra occasione, almeno fino ad oggi. Da lì il passo è stato breve nel prendere in considerazione il papillon. E le collane, gli orecchini, ecc. E poi ho fatto una riflessione sui gender studies e ho iniziato ad elaborare la logica e la pianificazione della campagna come descritta sopra».

Courtesy Ma Rea

C’è più lavoro manuale o intellettuale dietro ogni campagna che promuovi?

«Credo che i due aspetti si contendano il primato. A monte c’è sempre un lavoro intellettuale, il quale può andare avanti per mesi. Quando mi viene in mente una nuova idea di campagna cerco di articolarla fin da subito e di capire se può funzionare e dare un valore aggiunto alla mia modalità espressiva. Magari fin da subito ne esce una buona idea e la metto nel cassetto in attesa del momento buono in cui tirarla fuori. Poi, quando la riprendo in considerazione magari la modifico fino a qualche giorno prima. Ed è qui che il lavoro manuale può dominare quello intellettuale e portarsi via una bella fetta di tempo e di energie per l’elaborazione. E comunque i due aspetti si influenzano a vicenda e mi trovo a lavorare come un bricoleur sia nell’aspetto intellettuale che in quello manuale. Un po’ come se avessi un canovaccio dal quale partire e improvvisare su tutti i fronti».

Hai un autore o una corrente artistica di riferimento?

«Un po’ tutta l’arte contemporanea è un riferimento per me. Dal dadaismo all’arte concettuale passando per la street art e l’arte povera. La poesia di strada è stato il mio riferimento principale, ma ora mi sono un po’ staccato dal semplice utilizzo della strada come lo conosciamo oggi. Da qui nasce la poesia errante. Mi sono reso conto da un po’ di tempo che la mia fonte principale di ispirazione è la mia biografia, in particolare l’infanzia e l’adolescenza. Questo perché mi sono accorto che le idee che elaboro di volta in volta rimandano alle mie esperienze passate. Una forma di sublimazione legata al mio modo di essere e di vedermi».

Prima le poesie sui cestini, poi nascoste fra le pagine dei quotidiani, quindi scritte su sagome di biancheria stesa, infine applicate sui rotoli di carta igienica nei bagni pubblici di luoghi di cultura. Da cosa nasce la scelta di legare i versi a oggetti della quotidianità?

«Tutto parte dall’idea di tirare fuori le parole dal chiuso dei libri. Farle prendere aria e farle arrivare alle persone in modo inaspettato. L’uso di oggetti della quotidianità rimanda alla mia volontà di far vedere alle persone come la poesia possa essere anche nelle cose più insospettabili e improbabili. E poi rientra in gioco quella forma di sublimazione legata agli oggetti interessati. Inoltre, gli oggetti della quotidianità hanno una gran forza veicolatrice di messaggi. A volte sottovalutiamo o non prendiamo in considerazione questo punto di vista e con la mia modalità vorrei portare l’attenzione pure su questo aspetto».

Durante la fase preparatoria di ogni campagna, preferisci agire di nascosto, oppure di fronte a un pubblico?

«La fase preparatoria di collaudo, qualora servisse, la faccio un po’ in tranquillità e lontana da occhi indiscreti. Quando invece agisco per portare effettivamente le mie opere all’esterno, nella maggior parte dei casi, faccio tutto alla luce del sole e trovo interessante interagire con le persone. Più e più volte si sono improvvisate aiutanti del momento. Con esiti molto divertenti ed interessanti. Mi piace l’idea di agire alla luce del sole perché passa il messaggio che non sto facendo niente di male, anzi, sto dando un po’ di colore ai luoghi interessati senza intervenire in modo aggressivo sulle cose».

Il tuo ciclo di iniziative, dal titolo ‘Una campagna al mese per una poesia palese’, comporta un impegno periodico a causa delle scadenze. Il fattore tempo quanto condiziona il tuo lavoro?

«Parecchio. Da una parte mi permette di rinnovarmi costantemente e di scombinare le carte di continuo, dall’altra mi condiziona nella conclusione delle idee così da evitare di lavorarci su all’infinito. In effetti, però, la domanda cade a pennello. Già da un po’ sto pensando di cambiare la mia modalità di ‘uscita’ con le mie campagne. Non so ancora quando, ma prossimamente cambierò questa prassi. La ‘campagna al mese…’ sarà sostituita con periodi di alta e bassa marea, quindi totalmente slegati dalla periodicità come è stato sinora. L’alta marea sarà utilizzata per annunciare l’arrivo di una nuova campagna o di una variante degna di nota. E la bassa marea indicherà un momento di calma».

Gli apprezzamenti che ricevi da chi ti legge sono più legati ai contenuti delle tue poesie o alla modalità di comunicazione che scegli di volta in volta?

«Direi che sono più legati alle modalità espositive, soprattutto perché sono molto peculiari ed insolite. Gli apprezzamenti sui contenuti arrivano maggiormente nella pagina Facebook de ‘Lo stendiversomio’. A me, comunque, interessa far arrivare i messaggi che stanno dietro alle campagne divertendo e sorprendendo le persone. Anche se sembrerebbe che le modalità artistiche oscurino il contenuto, in realtà, in modo più velato e latente i messaggi contenuti nei miei scritti arrivano a destinazione».

A che età hai cominciato a comporre versi?

«Molto tardi, in effetti… La mia storia culturale è particolare. I miei studi superiori e poi universitari sono iniziati con circa una decina d’anni in ritardo rispetto le tappe consuetudinarie. Quindi, le passioni che ne sono derivate sono piuttosto recenti. Ho iniziato a scrivere versi dal febbraio 2011 e da lì ho continuato in modo costante e assiduo lavorando sulla forma e sulla mia capacità di esprimermi. Una specie di percorso di crescita e di conoscenza di me stesso».

Ci dai una tua definizione di ispirazione?

«Lo stendiversomio. Questa è la mia poetica. La poetica dell’inconscio. Un’ispirazione che arriva dal profondo, dalle mie radici, dal mio substrato psicologico e culturale fatto di pulsioni e di inibizioni, di gioie e di dolori. Insomma, dalla mia vita. Lo stendiversomio è una fusione tra i termini stendibiancheria e versuro (termine dialettale veneto per indicare l’aratro). È proprio col versuro che rivolto la mia psiche (metaforicamente parlando) evocando cose profonde, esattamente come avviene con la terra, la quale viene rimestata dall’aratro e viene fuori di tutto. Poi prendo quello che ‘viene su’, lo assemblo un po’ e infine lo appendo sullo stendibiancheria in attesa che si asciughi. Faccio così con le poesie e pure con qualsiasi altra idea. Pure con i vari racconti che ho scritto (tutti nel cassetto). E mi piace giocare con la mia poetica. Infatti, all’esterno mi paleso come ‘Lo stendiversomio’, come se fosse la mia poetica la protagonista e io, in quanto Ma Rea, un semplice corpo, una specie di esecutore delle sue volontà. Colui che sta dietro le quinte, mentre lei è l’attrice in scena. Regista e attrice. Ma Rea e Lo stendiversomio».

Ferrara, ma anche Padova, Venezia, Treviso, Roma e Berlino. Che ruolo giocano le città nella tua poesia errante?

«Affettivo e simbolico. A volte sono solo città idealizzate ma a cui i miei sogni dedicano molto tempo. Mi piace viaggiare con la mia poesia errante perché è un modo di lasciare una traccia. Finora le città interessate hanno sempre rappresentato un certo tipo di rapporto con me, ma non escludo che in futuro possa allargare gli orizzonti alla scoperta di nuovi mondi per me sconosciuti. Il termine campagna da me usato indica la mia volontà di espandermi in modo capillare, oltre al richiamo al mondo del marketing. Quindi la poesia errerà dove più possibile».

Quali argomenti sfiorano le tue poesie?

«I più disparati. Nascendo dall’inconscio, le mie poesie spaziano in tantissimi ambiti. Parlano di gioie e dolori personali, di rapporti umani, della cultura odierna, di politica, della mia infanzia, dell’adolescenza o di esperienze quotidiane attuali. Spesso faccio delle analisi psico-sociali dei rapporti umani oppure mi piace giocare con l’ironia per trattare temi scottanti. In vari casi mi piace chiamare in gioco il mio animo giullare per parlare di alcune cose. Ultimamente sto scrivendo spesso sui sentimenti in generale, un po’ per sviscerare come avvengono e da cosa possono nascere; mi piace fare delle riflessioni poetiche psicologiche delle dinamiche sociali».

Affidare alla poesia un messaggio sociale, nell’epoca dei social network, è una soluzione efficace, o c’è il rischio di perdersi nell’omologazione?

«La poesia è vista un po’ troppo come una cosa di nicchia. Un po’ elitaria e un lusso. Trasformandola in poesia errante sto tentando di darle un aspetto di grande contemporaneità e freschezza artistica. Così facendo spero di sfuggire all’omologazione dei messaggi proprio grazie al fatto che passano apparentemente in secondo piano».

Le modalità espressive con le quali lavori sono oggetto d’interesse in ambito universitario?

«La poesia di strada è un fenomeno piuttosto recente (circa venti anni) e ci sono ancora pochi studi su essa. Io stesso me ne sto occupando all’interno del mio percorso universitario e questo mi permette di capire come mi colloco all’interno di questo panorama. È ancora molto giovane come forma espressiva e forse non ha ancora assunto una sua dimensione indipendente come invece ha fatto la street art. Anzi, spesso la poesia di strada viene inglobata nella street art, forse perché molti artisti hanno una formazione da writer mentre io sono un po’ lontano da questa pratica. Inoltre, con la poesia errante mi smarco un pochino dalla poesia di strada superandola in certi aspetti. In realtà sono io che attingo dall’università conoscenze da mettere nelle mie idee e modi di fare. Soprattutto dalla sociologia attingo molte prassi. Una su tutte è la rottura del frame, della cornice».

Ultima domanda. Dalla contaminazione fra le diverse arti, come ne esce la poesia?

«La poesia è il collante. È il filo conduttore attraverso cui voglio cercare di riunire le varie forme d’arte. È una specie di metafora del mio desiderio di riunire la grande frammentazione culturale odierna. La poesia ha sempre avuto per me un grande ruolo di fascinazione ed oggi è diventato il mio strumento principale con cui esprimermi. Voglio provare a raccogliere una sfida artistica ambiziosa che possa essere vista come uno slancio di coesione socio-culturale che possa farci superare un periodo di grande difficoltà umana».

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