Se Giorgio Canali non va in Mongolia la Mongolia va da Giorgio Canali. Vi ricordate il celebre video in cui il musicista ferrarese declinava con garbo l’invito dei soci Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, in procinto di partire per l’oriente? «Col cazzo che vado in Mongolia!» Era il 1996. Al destino sono bastati 18 anni per beffarsi ironicamente del cantautore, e proclamare la Mongolia ospite d’onore del Ferrara Buskers Festival.
La manifestazione musicale, giunta nel 2014 alla ventisettesima edizione, ha portato nel capoluogo estense tre gruppi provenienti dalla terra di Gengis Khan: Sedaa, Khukh Mongul, Hosoo & Transmongolian. Impossibile non accorgersi di loro, seppure all’interno del variopinto e confusionario panorama buskers: sgargianti abiti tradizionali ricchi di nappe e nappine, strumenti intagliati a cui è difficile attribuire un nome, sonorità stranianti, canti khoomei, armonici e gutturali.

Per conoscere meglio queste presenze tuttaltro che abituali Listone Mag ha raggiunto gli artisti in pausa pranzo, condividendo con loro patate al forno, impressioni sul festival, ricordi e insalate. Io e Giulia, la fotografa, chiacchieriamo con Shinetsetseg e Usukhjargal dei Khukh Mongul e con Nasaa Nasanjargal, Naraa Naranbaatar e Ganzorig Davaakhuu dei Sedaa.
Si sono tutti diplomati presso il conservatorio della capitale Ulan Bator, lavorano come musicisti professionisti e abitano tutti in Germania da parecchi anni: «per noi è una bella esperienza stare qui, incontriamo musicisti che vengono da tutto il mondo. Di solito suoniamo al chiuso, la reazione della gente è diversa, si tratta di spettatori che vengono al concerto apposta per noi, sono più abituati a questo tipo di performance. Qui la situazione è più libera, nelle strade le reazioni del pubblico sono diversissime ed è più facile iteragire».

Di Ferrara apprezzano soprattutto l’assenza di confusione – «è una città piccola e vecchia, molto bella, ci si sente bene qua» – anche se non comprendono gli orari dei negozi: «noi abbiamo il pomeriggio libero ma qua troviamo tutto chiuso, non riusciamo mai a fare shopping!». La cosa che gli piace meno? Può sembrare assurdo ma è proprio il cibo: «ci piace la cucina italiana ma tutti i giorni pasta o pizza per noi è troppo!».

Foto di Giulia Paratelli

Per i Sedaa questa è la prima volta a Ferrara, «probabilmente la centesima in Italia, l’anno scorso siamo stati anche al festival buskers di Pennabilli». Le loro esibizioni sembrano essere molto richieste: conclusa questa tappa i prossimi appuntamenti li porteranno in Austria, in Polonia, in America, in Colombia e in Slovenia. Il calendario prevede più o meno un concerto a settimana. In patria tornano una volta all’anno, per ritrovare amici e parenti. Berlino e Ulan Bator distano solo nove ore di volo. Volendo andare in treno basterebbe prendere la transiberiana e, prima di arrivare a Vladivostok, scendere a sud. «Ci vorrà una settimana», scherzano.
L’argomento del traffico sta molto a cuore a Naraa, che ci spiega qualcosa di più sul suo Paese: «la Mongolia è bellissima, la natura è incredibile, la gente è buona. Ci abitano circa tre milioni di persone, un terzo delle quali nella capitale. Ma Ulan Bator è una città piccola, il traffico è veramente orribile e si vive molto male. Meglio lavorare in Europa: la moneta vale di più».

Naraa canta e suona una specie di violino a due corde chiamato morim khuur, la cui estremità è modellata a testa di cavallo: «il cavallo è il nostro simbolo nazionale, anche le corde degli strumenti sono fatte con crini provenienti dalla coda dell’animale». Del canto ci spiega che «si tratta di una tecnica abbastanza faticosa e molto antica, proviene dall’Ovest del nostro Paese ed è legata alla più celebre epica nazionale. Di solito lo si impara in famiglia, dalle persone anziane. A volerlo studiare servirebbero almeno un paio di anni». Il suo gruppo si compone di tre musicisti mongoli e un iraniano, il repertorio è originale e attinge da entrambe le tradizioni: «ci piace sperimentare, mescolare le sonorità, lasciandoci influenzare non solo dalla tradizione ma anche da generi moderni come il jazz. I testi parlano della natura, della storia, dell’amore». I Khukh Mongul invece suonano solo canzoni tradizionale, accompagnando la musica con la danza. «Si chiama biyelgee – spiega Shinetsetseg, ballerina -. E’ popolare in tutta la Mongolia, anche se ogni regione ha le proprie coreografie particolari. Proviene dalla tradizione nomade e non richiede molto spazio, i piedi restano praticamente fermi, è soprattutto la parte superiore del corpo a muoversi, occhi compresi. Le figure esprimono simbolicamente la vita quotidiana dei nomadi ma anche emozioni, caratteri, spiritualità». Quando Shinetsetseg i fotografi si scatenano, ma non le danno fastidio? «Non mi disturbano i fotografi ma i flash, spesso a causa dalle luci non riesco nemmeno a tenere gli occhi aperti».

Per chi volesse conoscere meglio la Mongolia e la sua storia la Biblioteca Ariostea propone, fino al 3 settembre, la mostra bibliografica «I mongoli: nomadi e guerrieri». L’esposizione – curata da Mirna Bonazza – raccoglie manoscritti e volumi riguardanti le avventure in oriente di Marco Polo e di Ramusio, oltre ad importanti atlanti realizzati tra il 1500 e il 1700.
Per chi volesse sapere cosa s’è perso Canali rinunciando al viaggio con Ferretti e Zamboni, sempre presso la biblioteca Ariostea è possibile prendere a prestito il diario a quattro mani pubblicato da Giunti nel 2000, «In Mongolia in retromarcia».

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