Se fossi nato e cresciuto a Ferrara, il primo incontro con il Festival dei Buskers, probabilmente, lo avrei avuto prima di compiere dieci anni. Sarebbe arrivato come quei film di fine estate di cui non si fa in tempo a leggere i titoli di testa. Nel limbo temporale che si dilata e si restringe a piacimento fra l’epilogo delle vacanze e la riapertura delle scuole, il Festival sarebbe sopraggiunto spostando il baricentro della mia città interiore. Che nei pensieri fantasiosi di un bambino non può che assomigliare inevitabilmente a quella reale, dove si trova ad abitare. Una parentesi tonda che non si sarebbe chiusa, tuttavia, a conclusione della settimana dei musicisti di strada. Ma sarebbe rimasta aperta, sospesa nell’immaginazione, rivolta verso i tanti mondi che avrebbero catturato la mia curiosità. Ogni angolo più insolito di una via del centro, si sarebbe impresso come fotogramma nel mio personale film del Festival. Avrei immortalato ogni dettaglio dell’arredo urbano che fosse servito da sfondo, seppure episodico, a qualcosa degna di richiamare la mia attenzione. Come ancora oggi conservo uno scorcio della mia città, teatro di festa, cori e sbandieramenti in una notte di luglio del 1982, filtrato dallo sguardo assonnato di un bimbo su un balcone di casa. Una vetrina, un muro, o un lampione sarebbero così rimasti a presidio di quella speciale pellicola estiva. Scenografie mai dismesse d’inverno, ferme lì a custodire il ricordo che il film, a ogni fine d’agosto, si sarebbe girato ancora. Con il passare degli anni, poi, quella pellicola, l’avrei osservata con maggiore cura, avrei fatto caso ai titoli di testa e di coda, di tanto in tanto mi sarei innamorato di una sua colonna sonora. Perché nel frattempo mi sarei soffermato anche alla trama e ai tanti protagonisti che cambiavano, mentre di anno in anno raggiungevano la città per realizzarne una nuova sequenza.

Foto di Massimo Benedetti

Un esercizio concettuale ipotetico, considerando che abito a Ferrara da pochi anni. Eppure una riflessione nata di recente, proprio quando il Festival accentua il suo aspetto più itinerante. Nella scorsa edizione, in una giornata, la tappa è a Venezia, oltre a Lugo di Romagna e alla consueta anteprima a Comacchio. Quest’anno, in segno di gemellaggio fra due realtà accomunate da un evento traumatico, per quanto diverso nella sua intensità, il viaggio dei buskers è diretto a L’Aquila, un altro luogo che non conosco. Inviato sul posto a raccontare un Festival di artisti in movimento che si fa nomade anch’esso. Mi tornano in mente le parole di una coppia di musicisti tedeschi conosciuti qualche edizione fa, e la loro definizione del vocabolo ‘busker’, che deriverebbe dal termine spagnolo ‘buscar’, ‘cercare’. Cercare, cioè, uno spazio dove andare a suonare. Una ricerca della propria città ideale che forse racchiude l’essenza stessa della filosofia busker.

E racchiusi all’interno dei due pullman, siamo quasi ottanta persone da Ferrara dirette in Abruzzo. I finestrini restituiscono la visuale dinamica del luogo che ci lasciamo alle spalle. La luce tiepida del sole del mattino accompagna i chilometri che piano piano si riducono, scandendo il percorso. Qualcuno recupera il sonno arretrato, qualcuno ricorre alla musica delle sue cuffie per ingannare l’attesa dell’arrivo, qualcun altro fa conoscenza con il resto della comitiva, in un miscuglio di lingue e accenti diversi. L’atmosfera ricalca la scia scanzonata delle gite scolastiche. E dopo la sosta a Rimini per il pranzo, il passo del viaggio procede cadenzato verso la destinazione. Alcune ore e arriviamo alla meta, che riposa su un altopiano da cui è possibile scorgere il Gran Sasso. Il cielo dell’Aquila sembra un involucro puntellato da gru. La vista non tiene il conto dei cantieri tuttora aperti. Ma il potere invisibile della musica è un’onda trascinante che spinge tutti all’auditorium del Parco, vicino all’albergo dove pernotteremo.

C’è il tempo per l’accoglienza delle istituzioni, per i saluti fra i sindaci di Ferrara e L’Aquila. Quindi si procede con il rituale della consegna dei cartelli. L’adrenalina è contagiosa e si diffonde rapidamente. Come rapida è la tabella di marcia che prevede la cena e la sistemazione delle postazioni. Nel cuore del centro storico, corso Vittorio Emanuele è l’arteria che congiunge la Fontana luminosa a piazza Duomo. Si gira con la mappa delle vie della città per battezzare l’angolo che ospiterà il proprio palco orizzontale della serata. Ciascun gruppo colloca a terra il suo cartello di riconoscimento. La centralità della sua posizione lo rende un elemento importante. Come fosse la maglia di una nazionale, in un torneo destinato a non lasciare vinti o vincitori. Il pubblico si riversa in strada, attratto da un’energia che è difficile decifrare. Adulti e bambini, giovani e anziani, famiglie e ragazzi. Il desiderio di stupirsi e la voglia di normalità hanno le facce che potresti incontrare in qualunque città. Un giovane indossa la maglia di calcio dell’Unione Sovietica del 1988. Quella del campionato europeo perso in finale 2 a 0 contro l’Olanda di Gullit e Van Basten. Seguo con gli occhi la fantasia opaca biancorossa di quella t-shirt, che si mescola agli altri colori del Festival, mentre a pochi metri la band partenopea ‘Ars Nova Napoli’ accende l’entusiasmo dei passanti con una tamurriata. Qualche metro più avanti, in fondo alla strada, il musicista ‘Hosoo’ incanta il capannello di gente che lo attornia, con la sua voce diplofonica, accompagnato dal gruppo ‘Transmongolia’. Basta tornare indietro e svoltare a sinistra, diretti a piazza Palazzo, per cambiare continente, approdare in California e lasciarsi sedurre dal suono ritmato e dalle movenze sinuose delle ‘Raimbow Girls’.

L’incantesimo del dettaglio urbano che fa da scenografia ai concerti sembra funzionare anche qui. Gli stand dello staff disegnano i confini del Festival e offrono un’ulteriore prospettiva di osservazione. Giulia Moretti e Carlotta Cannata presidiano la prima postazione, ai piedi della fontana, di fronte a un chiosco che profuma di crepes. «Ho iniziato a lavorare – racconta Giulia – due anni fa. A farmi conoscere questa realtà è stata la mia amica Carlotta. Nel 2013, poi, c’è stato un tirocinio invernale di tre mesi. Un anno fa mi occupavo degli artisti accreditati. Adesso ho cominciato a curare la pagina Facebook del Festival. Inoltre mi occupo delle vendite delle magliette e del materiale. Un’esperienza davvero coinvolgente. Nei giorni del Festival, Ferrara è più popolata e a noi sembra di essere in un’altra città. In una sorta di dimensione sospesa. Trovo bella anche l’idea della formula itinerante, e il fatto che altre città se ne appassionino. Poi c’è l’inevitabile ritorno alla normalità. Ricordo che una sera, davanti alla Cadorina, ci guardavamo dicendoci: e adesso?».

La notte aquilana e la musica dei suoi locali inghiotte ogni domanda insoluta. Il tempo del risveglio, lo decidono i raggi del sole che lambiscono le pendici del Gran Sasso fino a scivolare giù in piazza. Il sapore della colazione è l’ultimo regalo di una città che saluta i suoni e i colori della carovana del giorno prima. Concludo il mio viaggio ritornando dove ero partito. In fondo, se è vera la simmetria fra città interiore e città reale, forse vale anche la regola opposta. Che in ogni città in cui viviamo esistono pezzi di altre città che solo noi riusciamo a vedere. A costruirne i ponti. A fiutarne le connessioni. In virtù di quell’indole busker, che non esaurisce mai la sua ricerca e che induce a pensare che dentro ogni luogo ideale c’è sempre un cantiere aperto.

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