Ormai è da un po’ di tempo che ragiono sul come fare per poter vivere bene a Ferrara. E per vivere bene, intendo vivere giornate senza quella monotona routine che a lungo andare mi snerva. Significa vivere questa piccola città senza sentirla stretta e senza doversi fermare ogni cinque passi per salutare qualcuno di cui ti frega poco. Un professore mi disse che Ferrara è depressa, azzera il capitale sociale. Credo sia un po’ esagerato, ma non del tutto falso. Poi io non sono un professore e non tutti conoscono Bourdieu. Una della risposte che ho dato a questa serie di considerazioni, è in accordo con ciò che mi disse Riccardo. Consiste in una sola parola: equilibrio. Cioè riuscire a dosare bene i tempi di permanenza e di fuga.

Dopo essere ritornato al volo da Praga iniziai un estenuante mese di lavoro chiuso dentro una cucina di un paesino veneto. Dormii giusto un paio di giorni liberi e poi decisi di ritornare a Ferrara. Rientrai a casa stanchissimo intorno alle due di notte, odorante di cibo e sudore. Mi feci una doccia e mi addormentai sulle lenzuola che avrei dovuto cambiare il mese prima. Mi svegliò la telefonata della mia ragazza intorno a mezzogiorno, così colsi l’occasione per bere il primo caffè della giornata. Decisi di regalarmi un terzo meritato giorno libero. Saltai su un treno per Bologna proprio mentre stava per partire ma non dopo essermi sparato il secondo caffè e approfittai della mezz’ora di viaggio, per concedermi un’ulteriore dormiveglia di seconda classe al prezzo di quattro euro e mezzo. Arrivato nella città a 40 km – come la chiama Vasco in un suo pezzo – mi inoltrai nei portici per raggiungere via Indipendenza e cercare di perdermi tra i vicoli oppure in qualche bar. Arrivai alle Torri, la temperatura era mite. Ascoltai piacevolmente la presentazione del libro di Emidio Clementi nella galleria dietro la Feltrinelli. Sembrava di essere ad un concerto dei Massimo Volume mentre spiegava le motivazioni della ristampa de ‘L’ultimo dio’. Finì per salutare tutti in breve e salutò con stupore anche me, dicendomi di ricordare la nostra breve chiacchierata al bancone di Zuni. Ho imparato che le cicatrici non si scordano. Chiamai Luca, che da quasi un anno vive nella città della mortadella: «ok, aspettami lì che arrivo», mi disse laconico. Arrivò dopo una decina di minuti in centro, cercandomi con lo sguardo. «Facciamoci una birra» mi disse ancora prima di salutarmi. Ovviamente accettai. Ci scolammo una pinta al bancone di un bar troppo pettinato, solo per andare al cesso. Poi attraversammo via Zamboni, dove ci soccorsero le Moretti da 66 dei pachistani, così ci stendemmo spalandrati in quella piazza Verdi nostalgica di anni passati. Discutemmo dei film di Pasolini che non ho mai visto e del perché scrivo così poco ultimamente, mentre una tipa si faceva una pera di fronte a noi. Optammo per altre Moretti proprio quando dai buchi nelle braccia di piazza Verdi, sentii il capo treno fischiare per la partenza dell’ultima corsa. Andato. «Dormi da me» disse Luca, «ormai…ci mangiamo una pizza e poi usciamo di nuovo». Dopo aver cenato ad un’ora improbabile, scendemmo in via del Pratello – quella che da il titolo ad uno dei libri del sopracitato Mimì. Una vecchia sdentata con una pelliccia sudicia, mi toccò il culo mentre ordinavo da bere e tutto il bar si mise a ridere, tranne me. Rientrammo a casa stanchissimi ed io dormii in un letto rosa in prestito. Il mattino seguente mi svegliai gonfio, mi lavai il viso nel bagno dei maschi spostandomi i capelli sporchi da davanti agli occhi e mi vidi allo specchio. Dopo un caffè freddo ci avviammo verso il centro, salutai Luca e cercai la via per la stazione. In treno un signore mi fissava con un’espressione strana, così mi coprii la faccia con L’ultimo dio. Il regionale del ritorno andava lentolento, lessi buona parte del libro fino al capolinea: Ferrara.

Saltai giù dal mezzo, salii le scale della stazione e uscii alla luce del sole. Mi gonfiai più di quanto già lo fossi e mi si gonfiò anche il cuore per essere ritornato a respirare familiarità. Allo sguardo di quei tanto bistrattati grattacieli una voce disse: «da dove sbuchi?» Era un mio coinquilino armato di valigia, in partenza per un matrimonio cinese. In via Garibaldi incrociai un professore – sorpreso di non avermi visto un paio d’ore prima a lezione-, un compagno universitario e subito dopo un altro pronto per il turno di lavoro, fino ad aver raggiunto la porta di casa. Sentendo palesemente di essere ritornato a Ferrara, ma di nuovo in equilibrio.

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